Speravano in un milione di votanti. Alla fine sono più di un milione e seicentomila. Nicola Zingaretti è io nuovo segretario e “la piazza” del PD è più “grande” di come la voleva chi ha pensato alla autosufficienza dei dem. È il cambiamento di linea politica nei confronti dell’identità del partito. Una sorta di primus inter pares all’interno dei confini di una alleanza che potrebbe rilanciare quel progetto federativo che non fu scelto negli anni ulivisti. Non si parla di alleanza con i 5 stelle perché, con uno scenario politico in evoluzione forse il soggetto “diverso” dal centrosinistra con cui fare alleanza elettorale deve ancora nascere.
All’interno i segnali che arrivano sono diversi.
Innanzitutto la volontà unitaria e non unitaristica. Quasi il 70% dei voto di Zingaretti spazza via la ricerca di un unitarismo utile al governo del partito e apre all’unitarietá reale, basata davvero sulle politiche condivise e non sulle necessità di rappresentanza delle correnti.
Ridimensiona le soffuse ipotesi di scissione dei renziani. Perchè la base non la capirebbe e diventerebbe solo scissione di un pezzo della classe dirigente. Non è un caso che il primo a felicitarsi con Zingaretti è Giachetti e poi arrivano gli auguri di Renzi che promette che i suoi non spareranno sulla ditta come toccò a lui. Basta che la sintesi di questa promessa non suoni o diventi come l’Enrico stai sereno che venne poi tradito qualche settimana dopo per salire a Palazzo Chigi.
Infine la spinta narrativa. La sinistra deve saper parlare ai cuori più che alla pancia. Zingaretti pare averlo capito. Solo alcuni elementi che stanno nella dedica, che ha voluto sincopare, nel suo discorso. A Greta e ai giovani che difendono il pianeta che vedrà il PD alzare la stessa bandiera (c’è un non so che di pasoliniano in quelle parole e in quel gesto); alla piazza di Milano che ridefinisce in pezzo del campo dell’identità di una sinistra che pareva perduta; la spinta di rivalsa nei confronti di un governo di diversi, difficile da mandare a casa ma la cui stessa formula e i cui dissidi interni rischiano di mettere in crisi la stessa democrazia; la scelta di campo precisa di stare dalla parte dei meno fortunati e delle terre più complicate: quelle colpite dalle mafie e quelle che vengono sacrificate sull’altare di un falso autonomismo del nord che non piace nemmeno – per come è pensato – a chi dovrebbe rendersi autonomo; la volontà di non “smantellare” tutto ciò che verrà realizzato dal governo attuale ma di togliere l’inutile e migliorare cui che comunque è utile.
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