Aprile 2017, a Poggio La Croce, piccola frazione in provincia di Firenze tra il Chianti e il Valdarno, sta per aprire un Centro di Accoglienza e, apparentemente, sta montando un’onda razzista. Ma alcune persone si riuniscono alla ricerca di un’altra risposta. Andreas Formiconi è una di queste persone e gli abbiamo chiesto di raccontarci la storia.
Cosa è successo?
Nell’aprile 2017 in paese si sparse la voce che sarebbe arrivato un insediamento di migranti. Il paese è Poggio alla Croce, ridente località a cavallo dei monti che separano il Chianti dal Valdarno, 190 abitanti, una storia pluridecennale di pacifica convivenza e svariate proficue collaborazioni di interesse pubblico. Dopo pochi giorni dalla notizia erano già state raccolte 230 firme “contro”. La reazione fu violenta, punteggiata da alcune infuocate assemblee popolari che vide la partecipazione delle due amministrazioni comunali interessate, i dirigenti dei potenziali soggetti gestori, funzionari della prefettura, forze dell’ordine, esponenti (non invitati) di partiti in cerca di facili strumentalizzazioni. Un manipolo di cittadini (10-15) intraprese invece un percorso di autoformazione, non in opposizione alla reazione di pancia ma per cercare di capirci qualcosa. Nell’agosto 2017 arrivarono 30 migranti di vari paesi, inizialmente da Senegal, Mali, Ghana, Bangladesh, Pakistan. Di tutte le fosche previsione paventate nei mesi precedenti non si avverò nulla. Invece partì quasi subito una scuolina dove i migranti che lo volessero, ma anche altri nostri cittadini, potevano ricevere supporto su questioni di italiano, informatica, pratiche burocratiche e altro. Da allora, agosto 2017 ad oggi, ogni martedì e ogni giovedì si fa scuola dalle 17 alle 19. Non è mai saltato un pomeriggio, senza nessun bisogno di pianificazione. I cittadini che partecipano non sono solo di Poggio alla Croce ma vengono anche da altre zone circostanti. La scuola non lavora su programmi e contenuti preconfezionati ma sui bisogni degli individui, un po’ come succedeva a Barbiana. Può accadere anche di recuperare e ricondizionare vecchi computer destinati alla rottamazione per distribuirli a chi ne ha bisogno; ne abbiamo recuperati 22 per ora (accettiamo computer da chiunque…).
Nel mese di luglio 2018, a partire da questa storia è stato finanziato un progetto della Regione Toscana. Il progetto ha tre filoni principali: la produzione di un documentario sulla storia di cittadini che reagiscono in modo pragmatico e positivo ad un evento che li concerne, la realizzazione di una rete che colleghi la grande quantità di esperienze positive simili alla nostra che il territorio esprime ma di cui la mainstream information si disinteressa, la realizzazione di un MOOC (Massive Open Online Course) per aiutare soggetti deboli a trovare la loro strada in questo complicato paese, migranti ma non solo. Il progetto è documentato presso lacanet.org (rete del Laboratorio Aperto di Cittadinanza Attiva).
Cosa significa per te, oggi, parlare di “cittadinanza attiva”?
Significa “I care”. Ovvero: ciò che ti circonda e quello che vi accade ti riguarda e, sia che tu agisca in modo qualsiasi o che ostenti indifferenza, ti assumi comunque una responsabilità. Si tratta quindi di rendersi consapevoli di tale responsabilità. Si deve tuttavia imparare a distinguere il prossimo dal remoto. Sul remoto puoi esprimere opinioni e votare. Sul prossimo invece puoi influire in prima persona: uscire di casa, ritrovarti con altri per studiare le questioni, immaginare soluzioni, concertare e attuare attività, studiare gli effetti, correggere, riprovare e via dicendo. Delle volte si fa la differenza ma soprattutto ci si cura. Perché costruire soluzioni ai problemi della comunità vuol dire curare quest’ultima. È questo il senso in cui gli etnopsichiatri si occupano dei problemi causati dall’innesto di insediamenti di migranti nelle comunità. Ma si può anche provare a curarsi da soli, è il nostro caso. E vale anche dal punto di vista individuale. Alla domanda di un giornalista su cosa ci inducesse a “fare i volontari” uno di noi disse: “Di fare il volontario non me frega nulla, vengo qui e faccio queste cose perché sto bene”.
Abbiamo bisogno di incontrarci con gli altri, vicini e lontani: racconta qualche incontro…
Questa storia è fatta di incontri, sostanzialmente. Se togliamo gli incontri non rimane niente. Oggi (22 marzo 2019) S. (Senegal) aveva chiesto un “appuntamento”. Ecco, già questo è un incontro, molto importante. S., quale persona fisica, in realtà l’avevamo già incontrato un anno e mezzo fa, perché era fra i primi arrivati a Poggio alla Croce. Ma l’S. di oggi è completamente un’altra persona rispetto a quello conosciuto allora. Quello era, benché alto e dotato di larghe spalle, emaciato e taciturno. Non si esprimeva, non ti guardava volentieri negli occhi. Un uomo depresso ma soprattutto un uomo che aveva paura – abbiamo capito dopo un certo tempo che quel tipo di espressione e chiusura che esprimono tanti di questi ragazzi è una manifestazione di paura. Ed è una paura che fa molta paura. Oggi S. l’abbiamo incontrato al bar, dove ha accettato di bere qualcosa insieme, sorridente, con una cartella in braccio e delle domande precise su certe sue questioni di lavoro. Un uomo fattivamente alle prese con il suo destino. E similmente due giorni fa è tornato alla scuolina F., raggiante per essere arrivato con la sua nuova bici, acquistata con il suo stipendio. O quando la sera, passando in auto, vedo tornare dal suo lavoro presso una lavanderia industriale A., che cammina a testa alta con passo energico; un anno fa sembrava un masso, all’inizio pensavo che fosse muto. Gli incontri di questo tipo sono tanti. E sono quelli che ci interessano, fra vari altri.
La rete Lacanet, che cos’è? a cosa serve?
La storia di Poggio alla Croce è bella ma non è unica. Forse uno dei risultati più interessanti è avere scoperto che il territorio esprime una grande quantità di positività. Purtroppo questa non rende a livello politico o nessuno è riuscito a metterla a frutto. Il degrado del dibattito pubblico allontana i costruttori di mondo e, fra questi, i costruttori di pace. Gente che tende a risolvere problemi in silenzio e che fatica a trovare il tempo per strombazzare risultati ai quattro venti. Però esistono e sono tanti. Non saranno certo la maggioranza ma non sono trascurabili e, soprattutto, sono importanti.
L’idea della rete è semplice: creare uno strumento per far emergere e contribuire a collegare questa realtà, con la speranza di facilitare una narrazione positiva che si contrapponga a quella della mainstream information, prevalentemente negativa. Non è un’idea originale. Un’altra scoperta interessante è stata proprio quella di avere trovato altri soggetti già attivi in questa direzione. L’idea ne esce moltiplicata: credevamo di dover creare una rete autogenerativa, capace cioè di includere spontaneamente nuovi nodi e invece è emerso che la rete ha capacità di svilupparsi ma per sottoreti anziché per singoli nodi. Ora stiamo lavorando per includere due insiemi di dati: da un lato oltre 100 offerte spontanee di aiuto per forme varie di accoglienza, raccolte dal movimento “Umani per Resistere“, e dall’altro circa 200 attività di accoglienza censite nella rilevazione delle buone pratiche a cura del Progetto della Regione #AccoglienzaToscana“. La rete si concretizza in una crowdmap realizzata con il free software Ushahidi, sviluppato in Kenia nel 2007 per la gestione di catastrofi e emergenze sociali di vario tipo.
Serve anche una rete di persone, mi pare…
Decisamente. Non ci interessano le reti virtuali. Uno dei criteri per la formazione delle rete Lacanet è che, se possibile, ogni nodo sia sostenuto dalla conoscenza diretta di qualcuno che vi opera. E comunque che fra i metadati riservati di ciascun nodo vengano inclusi riferimenti in grado di garantire la reperibilità per ottenere informazioni e aggiornamenti. Oppure, nel caso dell’aggiunta di sottoreti preesistenti, che esista un soggetto in grado di reperire informazioni relative ai singoli nodi.
Al di là dell’obiettivo di far emergere una narrazione positiva vi è il desiderio di usare la rete per far incrociare domanda e offerta di accoglienza, in varie forme. Fino ad ora, la cura per questa rete ha generato una quantità di nuove relazioni personali, per il momento in quantità superiore a quante se ne riesca a gestire. Ma bene così. Viva l’abbondanza!