Mai più schiave. La situazione italiana della tratta a scopo di sfruttamento sessuale

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Pubblichiamo l’intervento di Anna Pozzi, giornalista esperta di tratta e migrazioni, in apertura di cerimonia dell Cerimonia al Quirinale per l’8 marzo.

La tratta di persone è un crimine gravissimo e una gravissima violazione dei diritti umani. La tratta è la schiavitù dei nostri tempi. Soprattutto il traffico di donne, di ragazze e di moltissime bambine per lo sfruttamento sessuale. Ma non solo: perché si sono ampliati gli ambiti e le modalità di sfruttamento che possono andare dalla prostituzione coatta al lavoro forzato, dall’accattonaggio per conto terzi alle economie sommerse e illecite sino al traffico di organi e alle adozioni illegali.

Vorrei provare a illustrare la situazione italiana, per quanto riguarda lo specifico dello sfruttamento sessuale, a partire da tre storie.

La prima è quella di Caroline che è stata gettata via, dopo essere stata brutalmente picchiata, in un sacco della spazzatura, sul ciglio della strada dove era stata costretta a prostituirsi. Voleva andarsene, ma per impedirglielo, prima hanno ucciso la sorella in Nigeria e poi hanno provato a uccidere pure lei. Caroline è una delle migliaia di donne e minorenni – non solo nigeriane – sfruttate come schiave a scopi prostituzionali.

Secondo le Nazioni Unite nessun Paese al mondo oggi può dirsi libero dalla tratta, come Paese di origine, transito o destinazione dei nuovi schiavi. L’Italia è tutte e tre le cose.

Nel nostro Paese ci sarebbero dalle 30 alle 50 mila donne costrette a prostituirsi, la cui età si è progressivamente abbassata. Il numero è inevitabilmente approssimativo, perché il fenomeno è complesso, sommerso e mutevole. È un fenomeno, per molti versi, invisibile – specialmente se non lo si vuole vedere -, ma anche perché si è in parte trasferito dalla strada all’indoor – al chiuso – dove queste donne vivono in una condizione di segregazione e di violenza continua, inavvicinabili da chiunque potrebbe offrire un aiuto.

Attualmente tra l’80 e il 90 cento di coloro che chiamiamo prostitute in realtà sono “prostituite”, ovvero vittime di tratta, ridotte in schiavitù, costrette a vendere i loro corpi come se fossero delle merci, a vantaggio di trafficanti e sfruttatori, che hanno fatto di questo orribile traffico uno dei business illegali più redditizi al mondo insieme a quello di droga e di armi, ma anche a uso e consumo di milioni di clienti che alimentano con la loro domanda il mercato del sesso a pagamento.

Mercy – e questa è la seconda storia – è stata costretta a prostituirsi ancora prima di arrivare in Italia. Come moltissime sue connazionali nigeriane ha attraversato il deserto del Sahara ed è rimasta bloccata nell’inferno della Libia, dove ha subito stupri e torture. Mercy è rimasta incinta, ma ha deciso di tenere la sua bambina. E l’ha chiamata Victoria

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha denunciato ripetutamente il fatto che queste donne, già durante il viaggio, subiscono le peggiori violenze, vengono obbligate a prostituirsi e si ritrovano in una condizione di semi-schiavitù.

Il fenomeno del traffico delle nigeriane si è strutturato nel corso di oltre trent’anni, ma negli ultimi tempi ha assunto caratteristiche nuove: dal 2014 al 2016, infatti, sono sbarcate in Italia circa 18 mila giovani nigeriane e moltissime minorenni. Partono giovanissime, spesso con livelli di istruzione molto bassi. Partono a tutti i costi e finiscono quasi inevitabilmente nella rete dei trafficanti.

Il nostro Paese si è trovato di fronte a una grande sfida: quella dell’emersione di queste vittime – del riconoscimento del fatto che fossero vittime di tratta – e della loro protezione.

Sappiamo che c’è un’ottima legge in Italia che garantisce percorsi di protezione sociale a queste donne ed esiste un piano nazionale anti tratta, che viene rifinanziato proprio in questi giorni dal Dipartimento delle Pari Opportunità e che prevede progetti articolati con partnership pubblico-privato in tutte le regioni italiane.

Purtroppo non tutte le vittime di tratta riescono o possono essere inserite nel piano nazionale. La maggior parte ha intrapreso il percorso della richiesta d’asilo, in strutture che per loro natura non sono ad alta protezione e dove gli sfruttatori riescono a intercettarle e a costringerle a prostituirsi.

Mercy è stata in qualche modo fortunata. Si trova infatti in una casa di accoglienza, Casa Rut di Caserta, che in quasi venticinque anni ha accolto circa 500 donne vittime di tratta e un’ottantina di bambini. La sua responsabile, suor Rita Giaretta, è stata riconosciuta qui, al Quirinale, l’8 marzo di alcuni anni fa. Mercy sta studiando per ottenere il diploma di terza media, ma con ogni probabilità non potrà sostenere l’esame finale perché non può fare l’iscrizione anagrafica. Come molti altri non può accedere ai servizi sanitari, all’assistenza sociale e alla formazione professionale. E non potrà affacciarsi al mondo del lavoro con le dovute competenze per poter acquisire una vera autonomia e ritrovare quella dignità che solo il lavoro nella legalità può dare.

Infine, vorrei concludere con una storia di coraggio e speranza. Quella di Blessing che non solo ha avuto la forza di scappare e denunciare, ma ha deciso di parlare, di esporsi in prima persona, raccontando la sua storia e lavorando come mediatrice culturale per aiutare altre ragazze a vincere la paura, che è un strumento di coercizione e asservimento molto potente. «Aprire la bocca – dice Blessing – è un modo per spezzare un’altra catena, quella della menzogna. Perché sulla menzogna non si costruisce nulla. Solo riconoscendo il valore della verità, e di ciò che è buono e giusto, si può pensare di costruire un futuro di libertà per tutti e spezzare infine la catena più orribile, quella della schiavitù. Non è solo un’opportunità per me, ma per la mia generazione e per i nostri figli. Per l’Italia e per il mondo. Perché mai più nessuno pensi di non avere altra alternativa che di essere schiavo».


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