PierGiuseppe Di Tanno indossa una maschera da scheletro e accoglie il pubblico al centro del palco, su un tavolino con gambe di circa due metri: ora sta seduto a cavalcioni, ora si alza in piedi sul piano, ora si rannicchia piegato sui talloni, ma lo spazio in cui si muove è ridottissimo; il suo abito di scena, così stridente con il linguaggio inusuale del testo, è costituito solo da una canottiera informe che indossa su pantaloni di latex neri, a piedi nudi, ed esalta la fisicità vigorosa di questo attore che ha vinto il Premio UBU 2018 come Miglior Attore/Performer Under 35 e nessuno tra il pubblico che lo ha visto in questo spettacolo può faticare a capire perché. Specie nelle pause tra una battuta e l’altra, nei momenti in cui si terge il sudore togliendo la maschera e svelando lenti da vista di color azzurro chiarissimo, con un effetto che rende lo sguardo ancor più spiritato, si dimostra persino più espressivo. Quando parla, interpreta tutti i personaggi in cerca d’autore più il capocomico, in un susseguirsi veloce cui non è facilissimo star dietro.
La postazione su cui è issato il protagonista costringe lo spettatore a una posizione scomoda e innaturale, che per tutto il tempo impedisce al pubblico di dimenticare il proprio ruolo di osservatore, sottolineando così che chi guarda non fa parte della narrazione, non può fondersi e immedesimarsi in quella rappresentazione così poco realistica, e si trova a riflettere continuamente sulla sua posizione “fuori” dalla scena e sulla fatica necessaria per entrare nel personaggio. Una fatica resa fisicamente dal sudore dell’unico attore sul palco, esibito, quasi si trattasse di un simbolo della fatica di vivere e di apparire così come stabilito dalla società, dalle convenzioni, dalle nostre stesse aspettative.
I vari personaggi si alternano così sul tavolino angusto dalle gambe lunghe, il capocomico più spesso accucciato e il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, con sguardi stralunati e lingua che provocatoriamente fa capolino tra le labbra, quasi irriverente. Il testo è decostruito, sovvertito nell’ordine, mette subito in scena il bisogno dei Personaggi di prendere vita, una volta usciti dalla penna dall’autore e da esso abbandonati. L’azione non fila più, è interrotta, esasperando il senso di straniamento con cui Pirandello si proponeva di esplicitare la finzione: si ritrovano le riflessioni e le citazioni ma la trama si sfalda, non è focale, tanto che, a un certo punto, scompare anche l’attore e resta proiettato sul palco solo un distillato di parole-chiave: realtà, finzione, personaggio, rappresentare. Finché, nella seconda parte dello spettacolo, Pirandello trascolora in Shakespeare: Latini decide di rinunciare all’immediatezza della comunicazione per un raffinato salto tra due opere caposaldo del teatro, passando da una riflessione sul confine tra realtà e finzione, tra vita sulla carta e vita sulla scena, a quella sul confine tra suicidio e morte non procurata, quella che consente all’Ofelia dell’Amleto di essere sepolta da cristiana. E’ la tomba, che prende il posto al centro del palcoscenico, dove prima stava il trespolo, che unisce la morte (vera o solo rappresentata?) della Bambina pirandelliana e quella dell’Ofelia shakespeariana, e fa da ponte tra la prima e la seconda parte dello spettacolo.
Nell’inglese originale del testo, Di Tanno, ora vestito in modo più convenzionale, ci porge quella differenza, così sottile, tra l’uomo che si affoga andando incontro all’acqua e l’uomo che viene raggiunto dall’acqua e soffoca senza essersi accorciato la vita di sua spontanea volontà, citando letteralmente il Quinto atto della tragedia shakesperiana per eccellenza, quella dei becchini. Qui l’attore si rivolge direttamente al pubblico chiedendo “How is your English?” e rompendo la divisione tra scena e pubblico, ma anche ammiccando complice per la prima volta in modo caldo, rompendo più la che finzione scenica il gelo, che era venuto a crearsi in precedenza.
Anche se Di Tanno non indossa più la maschera della prima parte, il teschio di Amleto aleggia più di prima sulla scena e rimanda alla parte precedente, mentre il protagonista scavalca la tomba, vi entra sostandovi per poco, vi si sdraia. E qui Latini rimonta il testo, chiudendo il cerchio e ripartendo con Pirandello. Rimane nella testa il messaggio sull’incomunicabilità del mondo che abbiamo dentro: “Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!”. Messaggio che non è facile perdonare all’autore né allo spettacolo che ce lo ripropone dopo un percorso impervio, che si scioglie in un finale giocoso, fatto di schiuma e bolle di sapone sparate fuori da una sorta di proiettore: e così la tomba si trasforma in una vasca, quella dove la Bambina era annegata, e dove ora Di Tanno, svestito, è libero di ridere e giocare a fare la diva. Ma allo stesso tempo la schiuma impedisce di vedere, tappa gli occhi, ricopre tutto il palcoscenico: forse è solo così che si raggiungono, finalmente, la libertà e l’autenticità.
Sei. E dunque, perchè si fa meraviglia di noi?
Drammaturgia e regia Roberto Latini
con PierGiuseppe Di Tanno
musiche e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
assistenza alla regia Alessandro Porcu
collaborazione tecnica Luca Baldini, Daria Grispino
foto Angelo Maggio
(produzione Fortebraccio Teatro)
Fino al 24 marzo al Teatro Franco Parenti di Milano