Marco Carboni, sindacalista sardo, viene inviato in Calabria dalla segreteria nazionale del suo sindacato per cercare di risolvere una lunga e dura vertenza aperta dagli operai delle industrie della piana di Goia Tauro. Un mese dopo il suo arrivo viene assassinato a Rosarno, al termine di una cena. Sette anni più tardi la famiglia Carboni, su precisa richiesta di un fratello dell’ucciso, fatta in punto di morte, chiede allo studio legale Deffenu di cercare di scoprire la verità. L’inchiesta giudiziaria aperta sull’assassinio non ha portato a nulla e rischia la definitiva archiviazione.
Il capitano dei carabinieri Gino Murgia, incaricato dall’avvocato Deffenu di recarsi in Calabria per indagare, stabilisce che Marco Carboni era stato ucciso perché aveva scoperto che la ‘ndrangheta utilizzava il porto di Gioia Tauro per traffici illeciti, ma per una tragica concatenazione di eventi l’inchiesta non riparte.
Una parte della famiglia Carboni è comunque soddisfatta del risultato, un’altra no, perché senza un processo o una sentenza i figli e la moglie dell’ucciso non avranno diritto ad alcun risarcimento. Come accaduto nel 1965 e nel 1980, sempre in Calabria, per Luigi Silipo e Peppino Valarioti, esponenti del Pci, e come si ripete costantemente per tanti eroi civili – sacerdoti, uomini delle forze dell’ordine, giornalisti – che vengono eliminati senza che lo Stato se ne occupi. Con gravissime conseguenze economiche e sociali per le loro famiglie.
Prefazione di Don Luigi Ciotti a “Il costo della verità” di Ottavio Olita
Intorno a una parola importante quanto impegnativa come verità, ci sono tre dimensioni che Ottavio Olita ci presenta all’inizio di questo romanzo: libertà, rivoluzione, costo.
“La verità vi farà liberi”, cita Olita dal Vangelo secondo Giovanni (cfr. Gv 8,32).
La verità infatti non è un possesso, la verità è una ricerca. Verità e ricerca della verità sono facce di una stessa medaglia, come lo sono il cammino e la meta. Il cammino ha bisogno della meta, altrimenti manca di senso, di direzione. Ma la meta ci rivela qualcosa di nuovo solo se ha alle spalle un cammino autentico, percorso con tenacia, passione e impegno. Ecco allora che si può intendere la verità come un sapere in cammino, in movimento, un sapere che sente il desiderio costante di approfondire, di allargare i suoi orizzonti, la sua capacità di comprendere e di accogliere. Un sapere cosciente dei suoi limiti e quindi propenso all’ascolto e all’apprendimento.
E’ questa la verità che rende liberi perché promuove la vita invece di richiuderla in dogmi irremovibili, in aride dottrine. Come la verità, anche la libertà non è infatti un possesso, una proprietà esclusiva: è un bene comune. Si diventa liberi, la vita è un continuo processo di liberazione. Per questo non possiamo limitarci a difendere la libertà dobbiamo anche promuoverla, diffonderla, condividerla. Si è liberi insieme agli altri non contro gli altri o a loro danno: la libertà è il primo e il più prezioso dei beni comuni.
L’autore riprende una citazione di Antonio Gramsci, secondo la quale la verità è sempre rivoluzionaria. Siamo abituati a pensare a una rivoluzione che presuppone eroi: il vero “eroismo”, nella ricerca della verità, è quello – ordinario ma tanto difficile – di agire secondo coscienza.
Penso a tutti coloro che sono morti per mano della criminalità organizzata solo perché facevano il loro dovere: ci hanno insegnato con la loro vita che il bene personale è conseguenza del bene comune. Che non si può essere cittadini a intermittenza, a compartimenti stagni. Che la prima mafia si annida nell’indifferenza, nella superficialità, nel quieto vivere, nel puntare il dito senza far nulla, nel vedere il male e girarsi dall’altra parte. La loro è dunque un’eredità d’impegno, di responsabilità, di risveglio delle coscienze. Cioè di verità. Ci hanno insegnato a cercarla, a non averne paura, a dirla anche quando ci mette in una posizione scomoda.
È la verità cercata per ottenere giustizia quella di cui Olita ci parla nel suo romanzo, il cui protagonista non è solo Pietro Carboni, il giovane sardo che dopo l’uccisione del padre Marco trova lavoro a Londra, vivendo in una sorta di doppio esilio: esiliato dalla verità circa la morte del padre, esiliato dalla propria terra per cercare lavoro altrove. Protagonista e perno della vicenda è la rete di persone e relazioni che circonda Pietro: la sorella Maria, la mamma Antonietta, lo zio Paolo, l’avvocato Giuliano Deffenu, il carabiniere Gino Murgia, il giornalista Nicola Auletta. L’eroe della verità non è una persona sola, è piuttosto un noi, è una collettività quasi domestica ad innescare la rivoluzione, a riaprire ricordi e ferite sette anni dopo l’assassinio di un padre di famiglia, persona onesta, lavoratore e sindacalista. Lo riconosce uno dei personaggi, a conclusione della storia:
“L’unica cosa che mi sento di dirvi (…) è che questa vicenda è servita anche a farci rendere conto di quante famiglie vengono sconvolte dalla perdita del capofamiglia caduto mentre si impegna per il bene collettivo. Famiglie rovinate. Per fortuna non è il vostro caso, ma forse siete un’eccezione. Tenetevi stretto questo bel rapporto che avete fra voi”.
Ecco, dunque, il costo della verità: mettere in discussione tutto nell’intraprendere insieme un cammino, una lotta per la giustizia, contro la solitudine, contro il silenzio e la paura imposte dalla criminalità organizzata a danno di una famiglia come tante. La famiglia Carboni accetta questa “missione privata” non senza paure e reticenze, tant’è che questa decisione, sette anni dopo la morte di Marco Carboni, comporterà ancora un costo prima di arrivare alla verità e quindi alla giustizia.
Ottavio Olita ci racconta una ricerca della giustizia in forma romanzata: pur essendo frutto della sua fantasia, la storia dell’omicidio di Marco Carboni e della sua famiglia evoca quelle di tante vittime innocenti della criminalità organizzata e dei loro famigliari, che ancora oggi attendono giustizia. Gran parte degli omicidi e delle stragi di mafia sono tuttora impuniti, avvolti da nebbie o da mezze verità che, lungi dal rischiarare, infittiscono il mistero. Numerose sono le verità che ci girano intorno non riconosciute ancora come tali, coperte dai giochi di potere, dalla forza di ricatto delle mafie, dal marcio della corruzione ma anche dal velo opaco delle tante, troppe coscienze inerti e addomesticate.
La difficile scelta della famiglia Carboni di riaprire vecchie ferite per cercare la verità sulla morte di Marco ha lo scopo di ridare dignità alla memoria di quest’uomo, marito e padre onesto e amorevole; fare memoria è la richiesta che i famigliari di vittime di mafia fanno a gran voce. Non la memoria sterile delle celebrazioni, delle parole di circostanza (quelle rappresentate dal personaggio dello zio Peppuccio); bensì la memoria viva della responsabilità e della coerenza. La memoria delle coscienze e delle vite inquiete proiettate al bene comune.
Non fermandosi alla storia della famiglia Carboni, l’autore cita nomi ed episodi di cronaca, proprio per ricordarci che quella che racconta è – purtroppo – una storia non lontana da altre, reali e, non a caso, ancora in cerca di verità e giustizia: dall’omicidio di Luigi Silipo del 1° aprile 1965 a quello di Peppino Valarioti dell’11 giugno 1980; dalla strage del Bataclan di Parigi nel novembre 2015 alla fredda fucilazione in Calabria dell’immigrato Soumaila Sacko (dottore in Legge perseguitato in Mali), avvenuta nel giugno 2018.
La forza del racconto che Olita ci consegna, con la sua scrittura delicata e al tempo stesso vivace, è la forza della denuncia, della ricerca della verità che non si perde d’animo quando l’omertà o certa burocrazia la ostacolano; il suo è un atto di omaggio e di gratitudine verso i tanti testimoni che non si arrendono, e “gridano” ogni giorno con la loro vita apparentemente “silenziosa”. Un grido che – rivolgendosi a noi – si fa appello a fare altrettanto.