I guasti crescenti della percezione

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Siamo una Repubblica fondata sulla percezione, altro che sul lavoro. Lo dicono congiuntamente differenti rilevazioni internazionali, concordi nel considerare l’Italia come il Paese dove maggiore è la distanza tra la consistenza reale dei fenomeni sociali e l’opinione corrente in materia. Esempio tipico il numero degli immigrati: sono il 7 per cento della popolazione, ma nel sentire diffuso arrivano al 25.

Un virus, quello della percezione, che infetta ogni ambito della vita collettiva. Se ne è avuta conferma a Montecitorio, dove il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha presentato la sua relazione annuale, ancora una volta percorsa da una fortissima sensibilità ai valori costituzionali.

All’inizio del suo intervento Mauro Palma – il Presidente dell’Autorità, composta anche da Daniela de Robert ed Emilia Rossi – ha dovuto appunto fare i conti con questo nuovo, ingombrante soggetto dei nostri discorsi pubblici, che mal si concilia con la complessità dei temi che il Garante nazionale è chiamato ad affrontare: “la percezione di personale insicurezza, che spesso viene declinata in termini difensivi rispetto a potenziali aggressori. Un elemento percettivo, non misurabile, spesso recentemente evocato e forse anche enfatizzato, che comunque è resistente alle rilevanze statistiche che contraddicono quanto percepito. Poco ha senso ribattere a chi si sente insicuro con il dato della radicale diminuzione negli ultimi anni del numero dei reati – quelli che certamente non sfuggono alle statistiche, quali gli omicidi. Difficile far riflettere su come l’insicurezza individuale percepita possa essere letta come retroazione di un’insicurezza sociale…”

A questo quadro, dice però il Garante, non ci può adeguare o rassegnare passivamente, soprattutto se si esercita un ruolo pubblico: “…Ma la percezione non può essere semplicemente assunta, da parte di chi ha responsabilità istituzionali, come un dato, fisso, ingiudicabile; non può costituire il criterio informatore di norme né di decisioni amministrative, perché queste hanno sempre un valore di costruzione del sentire comune e chi ha il compito di regolare e amministrare la cosa pubblica ha altresì il compito di scelte che possano talvolta andare contro la supposta percezione della collettività, proprio per dare a essa una prospettiva meno angusta e un orizzonte di evoluzione”.

Parla di “chi ha responsabilità istituzionali”, il Garante, ma le sue parole possono valere pienamente anche per chi fa informazione, e che troppo spesso di fronte alla percezione si arresta timoroso, incapace di ricordare i dati dai quali la percezione si discosta. Vale anche per noi, per la nostra deontologia, la necessità di “scelte che possano talvolta andare contro la supposta percezione della collettività”, anche se un giornalismo meno sensazionalistico può pagare qualche prezzo in termini di share o di tiratura. Come ci ricorda da qualche mese il Manifesto di Assisi, che tra i suoi 10 punti ci invita ad “imparare il bene di dare i numeri giusti”.

Altrimenti il rischio è grande, ed è quello che la relazione al Parlamento del Garante evidenzia con allarmata chiarezza: “il rischio che mutando la percezione che la collettività ha del suo odierno vivere quotidiano, per esempio accentuando la sensazione di insicurezza nonostante non sia supportata da numeri, si finisca poi per mutare il mondo: nel nostro caso nel ridurre per tutti i margini di libertà. In particolare, nei confronti di coloro che sono percepiti, appunto, come i potenziali aggressori”.

Un racconto sbagliato della realtà non soltanto dà un’immagine distorta, ma concorre a peggiorare la vita dei singoli e della collettività.

*Roberto Natale, coordinatore del Comitato tecnico-scientifico di Articolo 21


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