L’ostinazione nel mantenere in vigore norme che prevedono il carcere per i giornalisti nei casi di diffamazione è costata all’Italia non solo una condanna per violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che tutela la libertà di espressione, ma anche l’obbligo di versare, nel complesso, tra danni non patrimoniali e spese processuali, 17mila euro. Questo perché, la Corte di Strasburgo, a seguito del ricorso del giornalista Alessandro Sallusti, ha confermato quello che già da tempo sostengono tutti gli organismi internazionali ossia che la misura detentiva ha un chilling effect sulla libertà di stampa, anche quando la pena non viene effettivamente scontata dal giornalista condannato. Con la sentenza del 7 marzo, la Corte europea ha accolto il ricorso dell’attuale direttore de “Il Giornale” Alessandro Sallusti precisando che il carcere può essere previsto unicamente nei casi di incitamento all’odio e alla violenza. Con la conseguenza che se uno Stato lascia in vigore norme sulla diffamazione a mezzo stampa che stabiliscono misure detentive incorrerà in una condanna da Strasburgo.
Con una situazione paradossale destinata a ripetersi a meno che il Parlamento non decida, sempre troppo tardi, di mettere mano alle norme del codice penale e della legge sulla stampa in materia di diffamazione. Infatti, malgrado la condanna nei confronti del giornalista fosse stata giusta sotto il profilo del bilanciamento tra diritto alla libertà di espressione e diritto alla reputazione, il solo fatto che sia stata inflitta una pena detentiva contrasta con la Convenzione e porta alla condanna dello Stato. Non bastano, quindi, provvedimenti legati al singolo caso o la sospensione dell’esecuzione della misura detentiva. Quello che conta è rispettare in modo effettivo la Convenzione che, nel considerare la libertà di stampa non solo un diritto del giornalista, ma anche della collettività che ha diritto di ricevere notizie di interesse pubblico, nonché un valore essenziale per la democrazia, ha da tempo interpretato l’articolo 10 della Convenzione nel senso che la misura del carcere compromette in partenza, per il suo carattere deterrente, il diritto del giornalista ad informare.
A rivolgersi ai giudici internazionali è stato l’allora direttore responsabile del quotidiano “Libero” sul quale nel 2007 erano stati pubblicati due articoli sulla vicenda di una ragazza di 13 anni che aveva deciso di abortire. Negli articoli – uno firmato da un giornalista del quotidiano e un altro non firmato – si sosteneva che la ragazza era stata costretta all’aborto dai genitori e dal giudice. Il direttore responsabile Alessandro Sallusti era stato denunciato e condannato per diffamazione aggravata e per omesso controllo a 1 anno e 2 mesi di carcere, a una multa di 5mila euro, nonché al risarcimento dei danni pari a 30mila euro. Il verdetto era stato confermato in Cassazione e il tribunale di sorveglianza di Milano aveva deciso di disporre gli arresti domiciliari. Tuttavia, su istanza di Sallusti, con decreto del Presidente della Repubblica, la pena era stata convertita in una multa. Di qui il ricorso a Strasburgo che, pur condividendo la decisione dei giudici nazionali circa la portata diffamatoria degli articoli e sulla responsabilità per omesso controllo, ha condannato l’Italia. Questo perché malgrado l’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione fosse prescritta dalla legge e perseguisse uno scopo legittimo quale la tutela della reputazione altrui, la sanzione è stata sproporzionata. È vero che il direttore di un giornale – osserva la Corte – non può sottrarsi all’obbligo di controllare gli articoli che decide di pubblicare e che le autorità nazionali possono imporre misure per punire la diffamazione e l’omesso controllo in ragione di un bisogno sociale imperativo come la tutela della reputazione, ma le sanzioni devono essere proporzionate altrimenti, anche se la condanna per diffamazione decisa dai tribunali nazionali è stata giusta, come in questo caso, è certa la violazione della Convenzione.
La Corte ricorda che anche la Commissione Venezia del Consiglio d’Europa, nel parere n. 715/2013 sulla legislazione in materia di diffamazione, aveva chiesto all’Italia di modificare le norme interne, senza nessun risultato. Non solo. Già in passato, nelle sentenze relative ai ricorsi Belpietro e Ricci, la Corte aveva affermato che la misura del carcere, anche se la pena è sospesa, è incompatibile con la Convenzione e non può essere prevista per un omesso controllo in caso di diffamazione. Per la sua natura, il carcere ha un effetto deterrente sulla libertà di stampa ed è sicuramente sproporzionato considerando la natura della misura e la sua severità. Pertanto, per la Corte, i tribunali nazionali, nell’infliggere la misura detentiva, hanno compiuto un’ingerenza non necessaria in una società democratica, violando la Convenzione.
Adesso, per evitare continui ricorsi a Strasburgo con inevitabili condanne anche al pagamento di indennizzi, il Parlamento dovrebbe mettere mano alle norme sulla diffamazione eliminando la misura del carcere. Senza dimenticare, però, che la Corte europea, proprio in un caso italiano (Riolo contro Italia) ha anche affermato che le sanzioni pecuniarie nei casi di diffamazione non devono essere sproporzionate e devono essere applicate tenendo conto delle “tasche” dei giornalisti.
In attesa delle modifiche legislative, in ogni caso, i giudici nazionali potrebbero sollevare la questione di costituzionalità perché è evidente il contrasto dell’articolo 595 del codice penale così come dell’articolo 13 della legge sulla stampa con l’articolo 117 della Costituzione il cui contenuto, in questi casi, è dato dalla norma convenzionale (articolo 10) della Convenzione europea che tutela la libertà di espressione come interpretata dalla Corte di Strasburgo.