FIRENZE – Mala sorte nascere poveri, e a una svolta della vita dover mettere poche cose in una sacca e farsi transfughi. Via di corsa su una barca, mormorando un addio monti che diventa riepilogo di un tempo meno infelice, aperto alla speranza, anche se pieno di sacrifici, e catalogazione sofferta di ogni ansa del lago, di ogni particolare dei luoghi dove fu bella giovinezza, nonostante tutto. Quel ramo…’quello’ amputato dell’ultima sillaba, fonema assente che deve comunque risuonare profondo, vuoto evocato dall’inclinazione della voce che disegna la progressiva distanza dalla casa natìa, dalla scaletta di pietra, dalle consuetudini, e il timore di non potervi fare ritorno.
Via, per l’alto mare aperto, braccati da editti e mandati di cattura, dall’ira pusillanime di un parroco, dalla foia altezzosa di un signorotto locale che intende il potere come sfogo della libido, da una parte all’altra della Lombardia, Milano, Monza, fino a Venezia, mentre la precarietà dell’esistenza si fa materia pulsante nel corpo degli attori chiamati a rappresentare I Promessi Sposi proprio a Lecco. Uno alla volta entrano nella grande sala prove, chiara e disadorna, stretti in cappottini e cappellini, in maglioni e montgomery, soffiandosi sulle mani per il freddo, spocchiosi o ardenti e incuriositi, innocenti o riottosi, animati dal buon senso popolare o contorti, ciascuno pronto a contestare e ascoltare il regista, il Maestro, e insieme a lui la storia raccontata da Manzoni, a interpretarla, reinventarla, innestandovi il proprio carattere, i propri umori. La mimesi è pressoché immediata – a Carlina Torta basta un fazzoletto in testa per diventare Agnese – mentre il Maestro (un gigantesco Luca Lazzareschi) si inerpica sulla raffinata costruzione verbale di Testori, complessa eppure ammaliante, che ci conduce in alto e in basso, in ogni punto dello spazio e del tempo, e dell’anima dei personaggi. Invoca la precisione, l’esattezza, il rigore del mestiere, della tradizione continuamente rinnovata, il rispetto della parola e del testo, destinato a rivivere proprio nell’apparente tradimento degli attori, nella scomposizione che libera le sue luci e le sue ombre segrete.
La storia, anzi le storie, quella di Manzoni e la rivisitazione di Testori, ci travolgono come se fossimo piccoli sassi abbandonati all’impeto di rumorosa frana. La regia memorabile di Andrée Ruth Shammah utilizza l’unità di luogo per far vivere a pochi metri di distanza, anche con sfumature irresistibili di ironia, la casupola di Agnese e Lucia e il Castello di Don Rodrigo, con tanto di cagnacci latranti. Vediamo, letteralmente, attraverso i semplici sortilegi degli attori, le profondità dell’Adda, i pizzi del Duomo di Milano, la meraviglia e lo smarrimento rabbioso di Renzo (Filippo Lai), la notte che lo avvolge nell’Osteria della Luna Piena, quando l’eccitazione, la nostalgia e i troppi bicchieri di vino gli fanno sognare Lucia; e Lucia, a Monza, nello stesso momento, che sente il sogno di Renzo, entro il quale i due ragazzi riescono, allungandosi nello spazio, a toccarsi le mani. Basta così poco a creare la Notte, un velo violaceo trasparente steso da una parte all’altra del palcoscenico e delle stelline dorate appese al bordo superiore, come nei presepi di una volta. L’incanto di un tempo diverso ci porta via, nelle suggestioni della commedia dell’arte e della féerie shakespeariana, nelle svagatezze da fool di Laura Pasetti, fra lievi canzoni popolari e orchestrine di strada alla Ceronetti.
Gli intermezzi fantastico-surreali, i fuochi d’artificio sorridenti e umanissimi di una regia che non si concede pause e raggiunge lo stato di grazia durante il trambusto criminoso che segue il tentativo di Agnese, Renzo e della recalcitrante Lucia di ingannare nottetempo Don Abbondio, si alternano alle fasi in cui prende il sopravvento un colore di pece, capace di farci davvero tremare di sgomento. Durante questi episodi, la parola polisemica di Testori emerge in tutta la sua potenza vertiginosa.
Profeta sconsacrato e reietto, abitatore di tenebre lussureggianti, Testori dà voce agli scoscendimenti tormentati dell’Innominato, così simili all’abisso che costeggia il suo rifugio fra i monti. A Lazzareschi basta un microfono per far dilagare le spirali solitarie, rauche e cattive, dei suoi ragionamenti. Si oltrepassa una soglia e non si ha più Volto né Nome, è l’intrico dei delitti (omicidi, massacri, stupri) a impossessarsi dell’identità di chi offende la dignità umana, la sua integrità fisica e morale, e a spingere la coazione a ripetere verso un buio sempre più estremo e denso.
Ma è nel disegno lessicale della Monaca di Monza che Testori raggiunge uno dei vertici della sua poesia, e questo allestimento lascia un segno indelebile nella storia del teatro italiano grazie alla traduzione scenica del personaggio di Gertrude/Virginia. Ci arrivano dapprima, quasi inintelligibili, frasi rotte e cupe dalla cella in cui Virginia de Leyva è stata murata viva, poi, lentamente, la figura risale in superficie attraverso una botola, sorretta dagli altri e accompagnata da un tanfo di decomposizione. Ha un abituccio nero e la testa è coperta da un velo luttuoso. Laura Marinoni impressiona, per tecnica e magnetica passione, nel suo avventurarsi in mezzo alla frantumaglia dolente della Sventurata. Le vicende si alternano e si fondono, quella reale e quella narrata da Manzoni, insieme ai piani temporali. L’odore dei gelsumini introduce la materia carnale della vicenda frammista al sangue dei crimini. Il rancore inestinguibile verso i genitori che, ancor prima della nascita, avevano destinato il feto al chiostro si mescola alle atmosfere della Ghisolfa, di una Milano perduta. Si procede per frammenti lirici e abietti, mentre i ricordi si disfano in flusso di coscienza disarticolato, in invettiva, in rimpianto, in eros e disperazione. In orgogliosa rivendicazione del proprio essere, anche, visto che Gertrude (o Virginia) si configura come il grumo di antimateria che attrae e ingoia tutte le altre vicende del romanzo, dando loro un senso più profondo. In lei dannazione e complessità interiore si uniscono, è una perla rivestita di onice nero, una delle molte incarnazioni di quel Lucifer, figlio dell’Aurora e doppelgänger di Cristo, precipitato in un sottosuolo invaso dal marciume.
Ancora Laura Marinoni, verso la fine, veste di panni della donna senza nome cui la peste ha ucciso la figlia. Il dolore rasenta l’afasia mentre regge fra le braccia il fagottino muto, esanime, di Cecilia, nove anni, caduta all’apparir del vero. Il cordoglio di Testori è per quel piccolo corpo, da cui presto la madre si dovrà staccare per consegnarlo alla brutalità dei monatti. Un corpo anomino su altri corpi, poi sotto altri corpi. Senza nemmeno il conforto di un abito per la morte e di una tomba.
Luca Lazzareschi
Laura Marinoni
I PROMESSI SPOSI ALLA PROVA
di Giovanni Testori
e con Filippo Lai – iNuovi, Laura Pasetti, Nina Pons, Sebastiano Spada – iNuovi
e la partecipazione di Carlina Torta
scena Gianmaurizio Fercioni
luci Camilla Piccioni
musiche Michele Tadini e Paolo Ciarchi
regia Andrée Ruth Shammah
produzione Teatro Franco Parenti, Fondazione Teatro della Toscana
con il sostegno dell’ Associazione Giovanni Testori
foto di scena Noemi Ardesi