Belgrado, vent’anni dopo. È giunto il momento di interrogarsi sulla NATO, sulle sue ragioni storiche e sul suo futuro, poiché quella guerra contro Milošević venne condotta sotto l’egida del Patto Atlantico e considerando che il medesimo il prossimo 4 aprile celebrerà il suo settantesimo anniversario.
Come nacque? Perché ha influito sulle nostre vite e sugli equilibri politici del nostro Paese? Diciamo subito, per correttezza dell’informazione, che il Patto Atlantico è un figlio diretto della Dottrina Truman e degli accordi di Jalta del febbraio ’45, un emblema dello scontro fra i due blocchi contrapposti che indusse il fronte sovietico a dar vita, per reazione, al Patto di Varsavia, con annessa Cortina di ferro e un armamentario geopolitico, economico e di equilibri che oggi sostanzialmente, e per fortuna, non esiste più.
Per questo, a vent’anni da quelle guerra con cui venne deposto un personaggio indubbiamente controverso, con metodi a loro volta alquanto discutibili, vale la pena di discutere sul ruolo della NATO nel contesto globale contemporaneo.
Ci vorrebbe il coraggio, che ovviamente non si può chiedere a Trump né a buona parte degli attuali governanti europei, di interrogarsi su quale ruolo possa avere ancora un’organizzazione sorta ai tempi della Guerra fredda in un mondo ormai multipolare, nel quale nessuno può più prescindere dal confronto e da uno scambio sempre più stretto con i paesi emergenti, a cominciare dalla Cina di Xi Jinping. Allo stesso modo, varrebbe la pena di interrogarsi sull’impellente necessità di dar vita ad un assetto di difesa diverso: lo stesso che la Francia pre-gaullista del ’54, sbagliando, bocciò e di cui oggi, al cospetto del terrorismo jihadista, è la prima ad avvertire il bisogno. E bisognerebbe pure domandarsi se piuttosto che un accordo di carattere militare e difensivo, quale è la NATO, non sarebbe il caso di accantonare ogni forma di collaborazione di stampo economicistico (vedasi alla voce TTIP e CETA) e rafforzare, invece, l’unico assetto che può tenerci ancorati alla modernità nonché ricostruire un idem sentire in grado di far fronte alle sfide del nuovo secolo. E l’assetto non può che essere quello culturale, molto più di quello difensivo, militare ed economico, in quanto un mondo multipolare e multicentrico come quello che si è delineato nel passaggio di millennio non consente più la logica dei blocchi contrapposti e del gendarme del pianeta, della nazione egemone e dell’idea che essa possa informare di sé tutti i partner internazionali. Un mondo siffatto ha bisogno di pluralismo, di vie di sviluppo alternative, di nuove battaglie, di nuovi linguaggi, di una sensibilità sociale, civile e ambientale radicalmente alternativa non solo a quella cui abbiamo assistito nel Ventesimo secolo ma anche a quella che, purtroppo, ha dominato il dibattito globale dall’avvento di Reagan e della Thatcher allo scoppio della crisi economica nel biennio 2007-2008.
Urge, pertanto,un nuovo Patto Atlantico, una nuova forma di collaborazione, un accordo di alleanza ideale e valoriale su temi dirimenti come il clima, i diritti umani e lo sviluppo sostenibile, uno scambio commerciale costante e proficuo, un discorso tra pari che presuppone un’effettiva esistenza dell’Europa e la rinuncia alla logica del dominio nonché un drastico cambio di rotta da parte degli Stati Uniti.
Non c’è dubbio, infatti, che il Nord America, e in particolare gli Stati Uniti, che si chiamano così grazie a un grande italiano, che da un altro grande italiano sono stati scoperti e che sono figli del Rinascimento europeo e dell’apertura di nuove rotte commerciali che si ebbe a cavallo fra il quindicesimo e il diciottesimo secolo, non c’è dubbio che questo mondo sia contiguo al nostro e che debba continuare ad essere il nostro punto di riferimento e il nostro principale alleato. Ma alleato non vuol dire padrone e noi non siamo i suoi sudditi. Il vassallaggio acritico dell’Europa attuale è un danno spaventoso, specie se si considera che è un assoggettamento ideologico al peggio del peggio della cultura barbara della destra americana, basata su muri, chiusure e princìpi antistorici che nulla hanno a che spartire con l’apertura, lo scambio e il confronto costante e costruttivo che ha reso possibili sette decenni di pace.
Aggiungo che, oggi più che mai, la vera sfida dell’Europa deve essere quella di prendere per mano gli Stati Uniti anche su un tema cruciale come l’ambiente, sostenendo apertamente sia il Global Green New Deal proposto dalla Ocasio-Cortez sia il vasto movimento globale che si sta mobilitando contro i cambiamenti climatici e le loro devastanti conseguenze, prima che sia troppo tardi e che diventi a rischio la permanenza stessa dell’uomo sul pianeta.
Un fonte socio-culturale, dunque, questo servirebbe oggi, con l’intento di non dichiarare più nessuna guerra, di difendersi solo da attacchi reali, a cominciare dal terrorismo, e di puntare su un rafforzamento dell’intelligence e dello scambio di informazioni tra i servizi e i corpi militari, al fine prevenire azioni sconsiderate come quella cui abbiamo assistito di recente in Nuova Zelanda.
La vecchia NATO, ormai considerata da molti, non a torto, obsoleta, non ha più ragione di esistere e sarebbe bene superarla, agevolando anche il processo di trasformazione del saggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, attualmente in capo a Francia e Inghilterra, in un seggio a disposizione dell’Unione Europea (il tutto, ahinoi, è complicato non poco dalla Brexit), arginando al contempo le aggressive potenze emergenti e le mire di una Germania chiamata a breve a gestire il non semplice dopo Merkel.
Un’alleanza culturale, la più potente che esista nel mondo del 5G e dell’internet delle cose, e uno sviluppo tecnologico, industriale e della conoscenza da condurre in sinergia sulle due sponde dell’Atlantico, così da rafforzare entrambe.
A vent’anni dalla guerra del Kosovo, dai bombardamenti su Belgrado e da una delle pagine più buie della recente storia europea, sarebbe ora che le basi NATO si trasformassero in basi al servizio di un corpo di difesa del Vecchio Continente e che con l’America si rafforzasse, invece, la nostra radice comune e lo storico legame d’amicizia che ci lega. È una sfida enorme ma ineludibile.
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