John Maynard Keynes glielo aveva detto: state ponendo le premesse per una nuova guerra, per un nuovo abisso, per una barbarie che farà rimpiangere il sangue che è stato versato finora. Si riferiva agli uomini di Versailles, ai governanti che, nel 1919, decisero di straziare la Germania sconfitta, ai leader delle potenze vincitrici, in particolare Lloyd George e Clemenceau, che non ebbero pietà di una nazione costretta a piangere due milioni di morti e che, in seguito a quella finta pace, si vide sottrarre l’Alsazia e la Lorena, ossia le sue principali fonti di approvvigionamento energetico.
Una pace insoddisfacenfe, secondo D’Annunzio “mutilata” per via delle mancate concessioni all’Italia dei territori reclamato, il preludio nonché una delle cause del nazismo e del fascismo, con Mussolini che invocava come confine italiano le Alpi Dinariche e Hitler che ebbe buon gioco nel farsi strada, dapprima con il putsch di Monaco del ’23 e poi con il rogo del Parlamento e la vittoria elettorale del ’33. Dieci anni nel corso dei quali si era consolidata una tremenda tendenza mondiale di cui l’Italia, come spesso le capita, fu anticipatrice e punto di riferimento, il che è testimoniato non solo dall’ascesa del fascismo ma anche dalle modalità con cui esso si fece strada nella società ed entrò nel cuore e nella mentalità delle persone. Guai, infatti, a pensare che Mussolini governasse senza consenso: ne aveva fin troppo, almeno fino al ’36, quando l’epopea di cartapesta del regime raggiunse l’apice con la vergogna d’Abissinia e i crimini compiuti a danno delle popolazioni indigene, nel tripudio di gioia di un Paese convintamente e fieramente fascista che applaudiva ogni iniziativa del Duce, eccetto una sparuta minoranza di coraggiosi critici, per lo più costretta all’esilio o condannata al carcere o al confino.
Cento anni dalla costituzione dei Fasci di combattimento, in piazza San Sepolcro a Milano, dall’inizio della barbarie, delle rappresaglie, delle violenze, dei pestaggi e delle intimidazioni.
Cento anni e il sansepolcrismo è ancora presente fra noi: nei linguaggi, nelle pratiche, nello stile comunicativo di una parte della nostra destra e nell’immaginario di un buon numero di nostri connazionali.
Cento anni e un pensiero va alla follia contemporanea di chi si ostina a strangolare la Grecia e a soffiare sul fuoco della cieca austerità, evidentemente ignaro delle conseguenze storiche di determinati comportamenti e dei rischi cui è tuttora esposto il Vecchio Continente.
Cento anni e l’amarezza nel riflettere sulla lungimiranza di Keynes e sulla grettezza di chi non lo ascoltò, ossia i progenitori politici di altri personaggi mediocri che nel ’38, alla Conferenza di Monaco, si illusero di essere riusciti ad arginare le mire espansionistiche e guerrafondaie di Hitler.
Cento anni e vale la pena di riflettere sul fascismo di ieri, di oggi e di sempre, sull’esterno fascismo italiano, su questo fiume carsico che scorre nelle viscere della nostra società e avvelena il nostro stare insieme, oltretutto favorito dalla pochezza delle opposizioni e dalla tracotanza dei sostenitori di questo nuovo squadrismo, portato avanti con gli ancor più pervasivi strumenti contemporanei. Perché non è che se non siamo ancora arrivati all’olio di ricino, possiamo dormire sonni tranquilli; non è che il fascismo fosse il regno del terrore e che la gente venisse bastonata quotidianamente per le strade; non ha alcun senso fornirne una visione rozza e caricaturale che impedisce alla massa di rendersi conto di essere ripiombata in pieno fascismo. Esso, come ben sapevano e scrivevano Gramsci e Gobetti, si presentò come l’antipartito, con una critica radicale e violenta nei confronti delle istituzioni, con un desiderio futurista di novità, velocità e movimento, con toni ed espressioni cariche d’odio e, al tempo stesso, affascinanti, in grado di esercitare sul popolo un’attrazione fatale e, al contempo, di rassicurare le classi dominanti costituite da borghesi e latifondisti. Il fascismo è e sempre sarà la nostra autobiografia, anche se sarebbe ingiusto ridurre l’Italia a una rappresentazione così negativa. Ma non è stato sconfitto, in quanto risiede nel nostro bisogno di protezione e sicurezza, nella nostra atavica sfiducia nei confronti dei governanti e, sostanzialmente, anche del prossimo, nella nostra passione per gli uomini forti, possibilmente un po’ guitti, un po’ guappi e ridicoli al punto giusto, donnaioli e con istinti retrivi da maschio alfa, cinici, sprezzanti e pronti a cambiare idea da un giorno all’altro su qualunque argomento.
Cento anni e il fascismo che la tristemente da da padrone in quest’Europa in balia dell’assurdo, in quest’Italia stanca, stremata, fragile, fiaccata dalla crisi e resa invivibile dalle divisioni, dai rancori e dai fallimenti delle sue classi dirigenti.
Cento anni e la fortuna di potersi ancora aggrappare a quel brandello di democrazia e libertà chiamato Unione Europea, ossia all’unica costruzione in grado di tenere a bada, non si sa ancora per quanto, il vento devastante che spira in ogni angolo del mondo, a cominciare dall’America di Trump.
Il sansepolcrismo, di cui ricorre il centesimo anniversario, fu il fascismo puro, nella sua forma più rozza ed autentica, quello di prima del potere, quello in cui era già tutto chiaro, quello che ci è rimasto nel DNA e dal quale non ci siamo mai, purtoppo, affrancati. Fu la cialtronaggine elevata a sistema e l’insicurezza trasformata in partito, in un soggetto nel quale i nostri istinti più bassi trovarono casa e spazio per esprimersi. Poi, come ricordato, iniziarono gli abusi, i soprusi, gli omicidi, le rappresaglie, la violenza per la violenza, le purghe e la deriva che ci avrebbe condotto dritti al secondo conflitto mondiale, ossia al solo epilogo possibile per quell’avventura di sangue e miseria morale.
Siamo tornati lì, a un secolo fa, e l’unico auspicio che posso esprimere è di riuscire a salvarci da noi stessi e dal nostro maledetto opportunismo, prima che sia troppo tardi.
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