Michel Temer non se l’aspettava, sebbene accuse circostanziate lo inseguissero da anni colmando i cassetti delle Procure della Repubblica. Da vicepresidente di Dilma Rousseff (mai accusata di arricchimento personale) aveva rappresentato il perno attorno a cui era stata costruita la maggioranza parlamentare necessaria per la sua destituzione. Ne aveva poi preso il posto al vertice dello stato, mantenendolo dal 2016 fino a 3 mesi addietro e caricandosi di iniziative niente affatto popolari. I suoi rapporti con il nuovo Presidente erano tutt’altro che cattivi, cosi come quelli con il ministro della Giustizia, Sergio Moro, l’ex giudice divenuto famoso per aver condannato l’altro Presidente, Lula. Ma come Shakespeare fa dire ad Amleto:”Sebbene il crimine sia muto, qualche circostanza misteriosa può renderlo evidente…”.
Dal carcere è intervenuto lo stesso Lula, non certo per difenderne l’innocenza, bensì il diritto d’ogni accusato a godere delle garanzie della legge che ne protegge la libertà fino alla condanna. Con forza alludendo a una “giustizia a orologeria”, a cui del resto accenna con maggiore o minore insistenza quasi tutta l’informazione brasiliana.
Il governo avrebbe favorito se non sollecitato il drastico provvedimento contro Temer, spinto dall’urgenza di recuperare almeno in parte i favori di un’opinione pubblica fortemente delusa. I sondaggi, di cui la politica vive ormai quotidianamente ovunque, dicono che in soli tre mesi l’ultranazionalista Jair Bolsonaro ha perduto 16 punti di popolarità, scendendo da 67 a 51; mentre all’inverso l’indice di rifiuto è salito da 21 a 38 per cento. Segnali di cui tener conto.
Il nuovo capo dello Stato si è trovato a dover parare vari colpi presso che contemporaneamente. Ha prima tentato senza successo di mediare una rissa tra il suo braccio destro e presidente del partito di estrema destra -il Social-liberale (PSL)- e i suoi figli per una grave irregolarità amministrativa. La magistratura li accusa di aver percepito fraudolentemente cospicui fondi pubblici, truccando il numero dei candidati iscritti nelle proprie liste elettorali. Sentendosi tradito, il Presidente si è dimesso. Poi il figlio maggiore, Flavio, denunciato per reati finanziari, per i quali dopo qualche giravolta non gli è rimasto che dichiarare: ”Chi rompe, paga…”. Infine il Presidente “legge e ordine” ha messo mano a una riforma pensionistica che sta facendo insorgere i pensionati.
Le tangenti per 500 milioni di dollari che sarebbero state incassate dal Partito del Movimento Democratico Brasiliano, il PMDB di Michel Temer, apparivano troppo di frequente accanto ai molti milioni finiti nelle tasche del figlio e del partito di Jair Bolsonaro nell’informazione più prestigiosa come A Folha di San Paolo e Veja. Era necessario e urgente reagire, si sentiva dire nei corridoi del potere a Brasilia: attaccare la corruzione. Ma scardinare il potere del narcotraffico che dalle favelas infiltra la società e l’economia nazionali – problema numero uno del Brasile-, richiede una determinazione e un tempo di cui il governo non sembra disporre. La corruzione della politica è altrettanto sentita e più a portata di mano, Montesquieu è stato emarginato dalla globalizzazione e la popolarità della giustizia richiede qualche provvisoria virtù.