Nei primi quindici giorni di marzo si sono svolti a Roma due eventi emblematici della complessità della “questione palestinese”.
Nei giorni 4,5 e 6 hanno partecipato ad alcune iniziative dense di significato due giovani persone palestinesi, AHMAD AZZA e JANNAT SALAYMA, provenienti da Hebron, la città della Cisgiordania divenuta simbolo del regime di discriminazione razziale che accompagna l’occupazione israeliana in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme, e dell’insolente tracotanza con cui i coloni impongono con l’appoggio delle truppe di occupazione la loro presenza su di una terra non loro. Ahmad e Jannat hanno portato una incontrovertibile dimostrazione di quanto l’occupazione israeliana sia violenta e alla luce del Diritto Internazionale del tutto illegale, di come Israele infranga da cinquant’anni anche gli obblighi ai quali i Trattati Internazionali lo obbligherebbero per la sua condizione di potenza occupante e calpesti sistematicamente i Diritti Umani ai danni dei Palestinesi. Hanno portato inoltre la propria testimonianza di attivisti della Youth Against Settlements – Gioventù Contro gli Insediamenti – che sostengono e praticano la Resistenza Non Violenta.
Tutt’altro scenario ha presentato nella sua conferenza tenuta il giorno 15 la professoressa statunitense Virginia Tilley.
In considerazione della assoluta improbabilità del ritiro di Israele dai territori palestinesi occupati,ella ha proposto per avvicinarsi al superamento del conflitto israelo-palestinese il passaggio dal “paradigma dell’occupazione” – che ha di mira la cessazione dell’occupazione, per altro condizione imprescindibile per chi sostiene la prospettiva dei due Stati per due Popoli – al “paradigma dell’apartheid” – che è volto invece alla prospettiva di uno stato multinazionale, laico e democratico. L’idea di uno Stato multinazionale non è nuova:fu di Martin Bubber, notissimo filosofo ebreo, che prima che fosse costituito Israele raccomandava, inascoltato, di non costruire uno Stato solo per ebrei. Una idea del genere è chiaramente contenuta nell’Atto Fondativo di Israele scritto dai suoi “padri fondatori”. Ma è stata totalmente rinnegata dalla deriva ipernazionalista del sionismo israeliano e, come si vedrà più avanti, definitivamente affossata in tempi recenti.
Ora è del tutto evidente che data l’impotenza cui è stata ridotta l’ONU dalla pratica dei veti incrociati non vi sia allo stato dei fatti chi sullo scacchiere internazionale voglia e sia in grado di imporre a Israele la cessazione dell’occupazione ed è parimenti evidente come del tutto inverosimile appaia lo smantellamento delle colonie israeliane in Cisgiordania. Così come è innegabile, per quanto si possa discutere se sia appropriato o meno, opportuno o no, addirittura controproducente qualificarlo come apartheid, che Israele abbia istituito in Cisgiordania ed a Gerusalemme un regime di discriminazione razziale. Pure è innegabile che all’interno di Israele viga un sistema di apartheid che colpisce non solo i palestinesi che vi risiedono, benché muniti di cittadinanza israeliana, ma anche gli arabi di religione ebraica ed i cittadini ebrei provenienti dall’Africa.
Tutto ciò assodato, non si vede però come e perché il rispetto della Legalità Internazionale che non si riesce ad imporre ad Israele a proposito dell’occupazione potrebbe essergli ingiunto per quel che riguarda l’apartheid. L’occupazione non è certo meno illegale dell’apartheid né la rinuncia alla terra sarebbe meno gravosa della rinuncia alla natura confessionale dello Stato, sancita appena il 19 luglio del 2018 con la promulgazione di una “legge fondamentale” che costituisce Israele “Stato-Nazione degli Ebrei”.Neppure appare più agevole sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale alla causa palestinese affrontandola dal versante dell’apartheid piuttosto che da quello dell’occupazione e delle sue conseguenze. Perché l’opinione pubblica che non reagisce di fronte allo spettacolo della privazione della libertà di un intero popolo, delle incarcerazioni ed uccisioni che si susseguono quotidianamente in tutta la Cisgiordania, degli indicibili soprusi che avvengono a Gerusalemme e delle ricorrenti stragi operate a Gaza, dovrebbe insorgere di fronte allo spettacolo dell’apartheid?
Non riesco quindi a vedere quali vantaggi si otterrebbero con il cambio di paradigma.
Vedo invece degli svantaggi.
Anzitutto quello di dare per conclusa ed accettata l’annessione della Cisgiordania e di Gerusalemme allo Stato Israeliano e quindi di dare anche formalmente per vinta la partita ora e qui ad Israele. A questo Israele, stato confessionale e razzista, che 87 Risoluzioni dell’Onu, a partire dalla n. 242 del 1967, dichiarano fuori della Legalità Internazionale e che ha affossato ogni possibilità di evolversi in senso pluralista e democratico con la Legge Fondamentale adottata. In essa infatti si stabilisce:< Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione. Il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivamente per il popolo ebraico>.
Con il cambio di paradigma ci si affiderebbe a questo tipo di Stato e si rinunzierebbe così a tenere aperta la questione palestinese come problema del quale la comunità internazionale debba pur darsi carico in qualche modo e si spegnerebbe quel lucignolo di speranza che ciò possa un giorno avvenire.
Si darebbe inoltre per virtualmente estinto quella sorta di Stato ammesso come “osservatore”all’Onu, che almeno serve, e non è poco, a tenere aperta in sede internazionale la partita con Israele, a dare la possibilità di far sentire all’interno del Palazzo di Vetro la voce pur flebile dell’Autorità Nazionale Palestinese che per quanto possa essere discussa e criticata, per quanto per effetto del tradimento degli Accordi di Oslo sia posta in posizione subalterna a Israele è pur sempre riconosciuta in sede internazionale come legittima rappresentante del Popolo Palestinese e abilitata, quando le condizioni di contesto lo consentissero, persino a portare davanti alla Corte Penale Internazionale qualcuno degli autori dei tanti crimini di guerra compiuti in nome di Israele.
Afferma la professoressa Tilley la necessità di essere realisti. Ed allora siamolo. Ma su tutti i fronti. Riconosciamo che oggi a portata di vista non c’è alcuna prospettiva credibile di soluzione della questione palestinese. Tanto se la si traguarda sulla scorta del paradigma occupazione quanto su quello dell’apartheid.
Ed allora? Non c’è che RESISTERE.
Tocca al Popolo Palestinese scegliere mezzi, modalità e tempi della Resistenza, badare a non disperdere ma piuttosto a curare, per quanto possibile, e valorizzare quel poco o pochissimo che gli rimane o che è stato in grado di guadagnare, quali ad esempio il riconoscimento dell’Onu,gli appoggi internazionali e la solidarietà delle società civili che gliela esprimono
Tocca ai sostenitori non palestinesi della causa di quel Popolo anzitutto rispettarne le decisioni; quindi solidarizzare con lui in modo tangibile sostenendone la lotta e quando se ne condividano modalità e mezzi, partecipandovi; facilitare, per quanto e come possibile, il riavvicinamento delle diverse componenti politiche del mondo palestinese affinché se ne ricostituisca l’unità; informare correttamente ed in modo efficace l’opinione pubblica sui reali termini della guerra che Israele porta al Popolo Palestinese e sui motivi per cui l’Occidente sostiene il colonialismo di insediamento israeliano in un’are strategicamente ipersensibile come il Medio Oriente.
Compiti impegnativi e tempi difficili quelli che si prospettano per la pace in Palestina .