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Una morte fin troppo utile. ‘Il Suicida’ di Nikolaj Ėrdman, al Teatro di Cestello Firenze

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Una morte fin troppo utile. ‘Il Suicida’ La Mosca di Ėrdman è la stessa di Cuore di cane. Gli anni venti post-rivoluzionari nei quali l’ideale velleitario e forse insincero di forgiare una società e un’umanità nuove è già arrivato al punto dove si digrada. Il radioso futuro si traduce in un poliziesco sorvegliarsi a vicenda e calpestare la dignità di chi, ai margini della politica, non ha alcuna protezione, il punto di vista marxista viene interpretato come esasperazione pragmatica, come oggettivazione priva di profondità prospettica. Sanzioni e denunce occhieggiano appena dietro l’angolo.

Le case sono suddivise in cubicoli soffocanti e promiscui, dove le famiglie vivono compresse dagli oggetti, a volte dormendo sedute per mancanza di spazio, divise da sottili tramezzi attraverso i quali filtrano voci, odori di cucina, echi di vite immiserite. Come quella di Semjon, disoccupato che vive con moglie e suocera, tormentandosi per l’umiliazione di non poter contribuire all’economia familiare. L’equivoco del dramma ferocemente satirico nasce proprio dal suo schermirsi davanti a una salsiccia di fegato servitagli per cena e alla conseguente fame notturna, nonché alla lite cavillosa che ne origina, insensata come tutte le liti fra poveri che si azzannano a vicenda per un senso di rabbia impotente verso il mondo.

Semjon è uno dei tanti uomini nell’astuccio che troviamo nella letteratura russa, a partire dal racconto di Cechov. Si dibattono in preda all’ansia, alla frustrazione, senza trovare uno spiraglio che permetta loro di vedere la luce. Tutta la comunità fuor di sesto che orbita intorno a Semjon si convince che voglia commettere un ‘tragico gesto’, anziché mangiare tranquillamente la salsiccia di fegato, e ognuno di questi individui gogoliani, interiormente deformi, s’impegna con fini ragionamenti a manipolare il presunto aspirante suicida e convincerlo a spararsi per questo o quell’ideale: il Romanticismo, la rispettabilità e l’influenza dell’intelligencija russa, la Chiesa, la corporazione dei macellai. Con ritmo veloce scorre la lanterna magica dove queste figurinine laide strillano e rivendicano gli interessi ‘particulari’ che stanno loro a cuore, travolgendo Semjon fino a fargli pensare che, in fondo, il suicidio rappresenterebbe davvero un riscatto, un affrancamento dall’invisibilità.

Eppure il timore del Nulla definitivo, il richiamo della vita organica, qualunque essa sia, la rivolta contro una morte infine avvertita come necessità altrui e non propria (un martire da esibire come cassa di risonanza), impediscono all’uomo di premere il grilletto. Ubriaco di vodka e finalmente lucido si sveglia nella bara dove, ennesimo frettoloso malinteso, era già stato adagiato, mentre intorno infuria un delirio collettivo che tocca l’acme con il puro nonsense dell’orazione funebre in cui si avventura il fattorino: Marcello ha detto nell’Amleto che c’è del marcio in Danimarca, e nonostante questo uno di noi si è tolto la vita.

La Compagnia ‘I Pinguini’, con mezzi essenziali, sorprendente talento, tanto impegno e la precisa consapevolezza di ciò che stavano rappresentando (qualità che non si incontra così di frequente), ha disegnato con misura e tempi pressoché perfetti una vicenda dove vengono sezionati i comportamenti umani, prima ancora del Potere, in tutto il loro crudele, grottesco opportunismo.

Colpiscono in particolare la ricchezza di sfumature di Pietro Venè nel dare forma tangibile agli alterni stati d’animo di Semjon, e il controllato approccio slapstick di Cristina Bacci al personaggio della suocera.


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