Alla fine arrivo una manciata di minuti dopo le diciotto, ho trovato parcheggio un centinaio di metri più in là, dietro l’angolo. Il passo affrettato e lo sguardo torvo di chi è cosciente del proprio ritardo e le mani in tasca per l’aria fredda di un sabato sera di inizio febbraio. Senza rendermene conto passo davanti a due automobili scure, una con il lampeggiante a calamita sul tettuccio, e raccolgo gli sguardi allarmati di altrettanti, me ne rendo conto solo in quel momento, poliziotti in borghese. Le loro facce, se possibile, tradiscono maggiore preoccupazione della mia mentre entro nella libreria del Centro Commensale Binaria spedito verso il mio obiettivo: seguire la presentazione del libro Un morto ogni tanto (edizioni Solferino) che Paolo Borrometi ha scritto per testimoniare la sua personale lotta alla mafia invisibile.
Non conosco l’autore e nemmeno il suo impegno quotidiano di giornalista. L’invito l’ho avuto da un amico e mi è sembrata un’ottima occasione per conoscere di persona un uomo che a 36 anni ha già fatto dell’impegno civico e della deontologia professionale la sua ragione di vita.
Quello a cui non ero preparato era la cornice.
All’interno della libreria conto all’incirca una ottantina di persone intente a seguire la presentazione, tutte compostamente sedute sulle poltroncine messe a disposizione dalla libreria, altre sedute direttamente sui gradini che portano ai soppalchi dove un’altra ventina di sedie accolgono altrettanti spettatori, altre in piedi, anche alle mie spalle.
Tra gli scaffali alcuni bambini piccoli giocano sorvegliati da mamme pazienti che cercano di contenere i gridolini divertiti dei figli e permettere al pubblico di ascoltare le parole di Borrometi. Una di loro, mi accorgo qualche minuto più tardi, ha un pancione che annuncia un nuovo arrivo.
Sarebbe tutto perfetto se non fosse per quel signore che, mani giunte all’altezza della cintura mi scruta teso da dietro le spalle del giornalista. La mia aria sicura e affrettata non dev’essere piaciuta «ai ragazzi» fuori. Mi guardo intorno e sul soppalco, proprio sopra i relatori, giubbotto scuro e “kefia d’ordinanza”, un altro occhio attento mi tiene «sotto tiro». Pochi secondi dopo, sposto lo sguardo verso destra e intercetto la stessa attenzione negli occhi di un terzo uomo che indossa un vistoso auricolare.
Decido allora di togliermi la giacca lentamente. Ho già dato troppi pensieri a questi ragazzi, penso. È la prima volta che assisto ad un evento di questo tipo.
Tra i relatori, oltre al moderatore dell’incontro Gian Mario Gillio, giornalista di Riforma e portavoce del Circolo Articolo 21 Piemonte e Maria Josè Fava, referente di Libera Piemonte, c’è la vice presidente del Senato della Repubblica Anna Rossomando. Forse il dispiegamento di forze è così grande a causa della sua presenza, penso, ma ascoltando Borrometi capisco, pian piano, che le cose non stanno così. La scorta è tutta per lui. A poco a poco i tre poliziotti si rilassano, forse rassicurati da alcune «lacrime» che di tanto in tanto mi scaldano la guancia, mentre ascolto i racconti di quest’uomo umile e gentile, o probabilmente sono io ad aver immaginato tutto, a disagio per una situazione per me nuova.
Le mie sono per lo più lacrime di rabbia, di impotenza. Questo giornalista, capisco, non ha fatto nulla di speciale, non è un eroe senza paura, non è un invasato alla ricerca di notorietà. È un uomo che ha semplicemente fatto il proprio lavoro con convinzione; un cittadino che si è comportato come chiunque dovrebbe comportarsi. È uno di noi, ma ha avuto il coraggio di esercitare i diritti di cui tutti disponiamo senza accondiscendenza o indifferenza. Lo ha fatto nel rispetto delle leggi vigenti scontrandosi con le anomalie del sistema, cercando di capirne le cause.
Malvolentieri Borrometi racconta l’aggressione fisica che gli è costata una menomazione permanente alla spalla. E di quando una mattina, già sotto scorta, nella redazione dell’Agenzia Agi ricevette la telefonata che gli annunciava che era già pronta un’auto con l’esplosivo per «eliminare» lui e la sua scorta.
La mafia fa affari anche con le nostre abitudini quotidiane, spesso a nostra insaputa, in ogni direzione, Borrometi racconta di quanto noi cittadini comprando anche solo degli ortaggi al supermercato, possiamo inconsapevolmente rafforzarla.
Parla di libertà di stampa e del diritto che ha ogni cittadino, di essere informato. Più i suoi racconti proseguono, più parole fluiscono, più sembra stridente l’accostamento dei diritti e della libertà di stampa alla sua condizione.
Borrometi è un uomo, un giornalista, un cittadino che vive in «libertà vigilata», sorvegliato a vista ventiquattr’ore al giorno. Una persona che per essere libera, ha dovuto farsi prigioniero. Non c’è privilegio nell’avere una scorta, non c’è libertà.
Lo si capisce dalle parole che pronuncia, dal suo sguardo pieno di gratitudine e di rammarico per quei «suoi» ragazzi, il personale della scorta, che condivide con lui lo stesso destino a difesa di diritti fondamentali. Dei nostri diritti.
Un altro pensiero trafigge la mia coscienza. Comincio a pensare a cosa potrebbe accadere se davvero tra le persone presenti alla presentazione ci fosse qualcuno intenzionato a fare del male a quell’uomo che con semplicità sta raccontando la sua vita, le sue inchieste. E ho paura, la stessa paura che credo provi Paolo e che coraggiosamente non nasconde ma racconta.
Realizzo che essere lì in quel momento, condividere quello spazio e quel tempo con Paolo Borrometi è la cosa migliore che si possa fare. Non isolarlo. Non darla vinta ai responsabili di quelle minacce, ai criminali che sfruttano, ricattano, uccidono senza guardare in faccia a nessuno, che delinquono e si intrufolano negli interstizi delle istituzioni e che ogni giorno rosicchiano una fetta della nostra libertà, dei nostri diritti. Una piccola dimostrazione di coraggio, davvero piccola in confronto a quello che ogni giorno serve a Borrometi.
A incontro finito ho la copia del suo libro in mano, mi manca però il coraggio di farlo autografare. Non trovo la forza di sostenere quello sguardo che mi ricorda quanto invisibile e cruenta sia la lotta alla mafia e quale sia il prezzo nel decidere di contrastarla. Esco dalla libreria salutando con un sorriso lui e la scorta.
Li guardo come se avessi davanti dei partigiani dell’immediato dopoguerra. Mettono a repentaglio la loro vita per difendere la libertà e i diritti dei loro connazionali, l’Articolo 21 della nostra Costituzione e i valori fondamentali della democrazia, della giustizia e della legalità.
Con il libro stretto in mano mi avvio verso il centro della città insieme al mio amico per tuffarmi in un aperitivo tra la folla del sabato sera. Libero. Spensierato. Penso che anche per questo sarà più bello leggere le parole di Paolo: oltre che per il dovere e il diritto di essere informato, per la grande libertà che quelle parole esprimono.