Dopo i voti dell’assemblea di Strasburgo (un no a luglio e un sì a settembre) e grazie anche al lavorio tenace della presidenza rumena, il “trilogo” ha dato il disco verde ad un testo di compromesso sul copyright. Si tratta di una direttiva rilevante, che rimette mano a quella datata 2001. Gli anni nella società digitale sono secoli e il diritto arranca, generalmente arrivando tardi. Quando tecniche e attitudini del consumo hanno già virato. Il “trilogo”, che comprende le tre istituzioni dell’Unione europea vale a dire commissione-consiglio-parlamento, era fallito ed è stato rianimato all’overtime con una riunione durata tre giorni.
L’articolato è stato rimaneggiato con parecchi ritocchi, ma non siamo ancora ai titoli di coda. Il tutto dovrà essere vagliato la prossima settimana dal consiglio (in versione “Coreper”, organismo composto dagli ambasciatori dei diversi paesi), per poi essere verificato dal comitato parlamentare per gli affari legali (JURI) in una specifica seduta, per concludersi nella sede assembleare a metà aprile. Poco prima, dunque, della chiusura della legislatura.
Nel tortuoso finale di partita conta il contesto, più del testo. Sembra evidente, infatti, che abbia ispirato la probabile conclusione positiva un accordo politico generale, scaturito dall’intesa raggiunta nelle scorse settimane da Francia e Germania: due paesi e due approcci differenti, essendo i transalpini tradizionalmente difensori della produzione dei contenuti e i tedeschi assai attenti al mondo della rete soprattutto nelle pratiche avanzate di varie città smart. Da quell’intesa, e a dispetto della contrarietà di diversi paesi tra cui l’Italia, è scaturita la scelta di arrivare alle conclusioni. Solo un mese fa sembrava un traguardo improbabile, ma così è la politica. Cosa ha convinto il nocciolo duro dell’Ue a portare a termine il negoziato?
Certamente il dubbio che il quadro elettorale di maggio – certamente segnato dall’ondata sovranista- possa mettere in soffitta il tentativo di guardare il copyright come fenomeno sovranazionale, non regolabile nell’era di Internet con legislazioni meramente nazionali.
Concretamente, i due articoli -11 e 13- oggetto delle principali controversie sono stati emendati in modo non irrilevante. Il primo ha visto una vittoria a tavolino del mondo editoriale e giornalistico, cui viene riconosciuto il “diritto connesso” con relativa retribuzione dei pezzi pubblicati in rete. Sono esclusi i collegamenti ipertestuali, le singole parole o i piccoli estratti. Insomma, giornali e – come emerge nel seguito della direttiva- i mondi audiovisivi possono tirare un respiro di sollievo.
Altra storia riguarda l’articolo 13, in cui permane il “filtro preventivo”, che i gestori delle piattaforme devono inserire nel loro software per rimuovere le violazioni del diritto d’autore. Con un occhio di riguardo verso le start up che conquistano una moratoria di tre anni. Si tratta dei service provider “…with a small turnover and audience…” Mah. Quando un dispositivo è semplice e chiaro non è detto che si applichi. Se è confuso e impalpabile i veri beneficiari sono gli studi legali pronti al contenzioso. E poi, entra in scena uno strumento ad altissimo rischio censorio, maneggiato tra l’altro dagli oligarchi dei dati: Google, Facebook, Youtube, insomma gli Over The Top. Bravi, questi ultimi, a fare la parte farisaica delle vittime.
Il software inibitore, dicono i proponenti, sarà prudente e discreto. Tuttavia, come diceva John Ford – uno dei re del western- il fucile inquadrato all’inizio del film prima o poi sparerà.