È lecito, come ha fatto qualche collega, pensare che il consiglio di disciplina dell’ordine dei giornalisti della Campania non abbia lavorato serenamente sul caso Di Maio, sul quale si è espresso allo stesso modo su due ricorsi diversi: archiviando. Non può giudicare serenamente, affermano, perché la vicenda Di Maio coinvolge, in qualche modo, il vicepresidente dell’ordine della Campania, Mimmo Falco, che ha un legame solido con Di Maio. Di Maio, per stessa ammissione di Falco, lo aiutò per le elezioni dell’ordine del 2010.
Di Maio, sempre su sua proposta, ha assunto il figlio. Voglio anche escludere altre coincidenze, casuali evidentemente, come il fatto che l’avvocato che ha rappresentato Di Maio davanti al consiglio di disciplina sia lo stesso avvocato di Falco, il giornalista pubblicista Maurizio Lojacono (un penalista), che più volte viene nominato nei lanci di agenzia. Proprio a Lojacono, tra l’altro, il Sindacato ha riconsegnato i 7.500 euro in contanti con i quali Falco aveva tentato la scalata al sindacato (una vicenda sulla quale sta indagando la Procura), ma questa è un’altra storia.
Io non voglio mettere in dubbio l’autonomia del consiglio di disciplina, che ritengo scontata, anche per l’autorevolezza di chi lo rappresenta. Vorrei entrare nel merito della delibera.
Nella decisione del consiglio ci sono, a mio avviso, due errori. Il primo sostanziale: c’è un elenco dell’albo, quello dei pubblicisti, dove, secondo quanto dice la legge, sono iscritte persone che fanno altri mestieri e che svolgono, appunto, saltuariamente attività giornalistica. Sono la stragrande maggioranza degli iscritti. Secondo la decisione del consiglio di disciplina questi colleghi, 10.400 solo in Campania, possono comportarsi tutti come il dottor Jekyll e il signor Hyde. Poter dimenticare le regole deontologiche quando sono Hyde e ricordarle quando sono Jekyll. Salvo avere sempre gli stessi diritti dei professionisti (che invece la deontologia non la devono dimenticare mai), anche nei concorsi pubblici. Non funziona così. Sembrerebbe anche un principio elementare, se non ci trovassimo di fronte ad una “sentenza”. Non l’ha ordinato il medico a Di Maio di essere iscritto all’Ordine dei giornalisti: se decide di esserci, deve rispettare le regole, sempre, in ogni caso, altrimenti va via.
Il secondo errore è più grave del primo, ed è politico. C’è un rappresentante del governo che aggredisce con parole e fatti, e con una violenza inaudita, un principio sacrosanto della nostra democrazia, che noi giornalisti, prima di tutti, dobbiamo difendere con le unghie e con i denti: quello sancito dall’articolo 21 della Costituzione italiana, la libertà di informare e quella di essere informati.
I colleghi in quel collegio avevano una responsabilità enorme, un compito importantissimo, difendere questo principio. Non l’hanno fatto. Bisognava tenere la schiena dritta, bisognava prendersi delle responsabilità. Hanno preferito derogare, uscire dall’impasse con una formula di comodo davvero imbarazzante per la sua fragilità. Hanno difeso l’interesse di uno invece di difendere quello di tanti. Una decisione diversa avrebbe dato un senso ad uno dei tre compiti dell’Ordine dei giornalisti, Ordine che lo stesso Di Maio vuole cancellare.
Noi siamo con la Costituzione, siamo con i giornalisti. Per questo se ci sarà la possibilità di fare ricorso, lo faremo e ci auguriamo che a decidere non dovrà essere un tribunale.