di Angelo Santoro
Difficile ricordare tutto dopo otto anni di attività. Un’immagine è ferma nella mia mente: risale all’estate del 2011. All’epoca lavoravo come agente di commercio nel campo dei mobili ed era difficile lavorare passando per le splendide spiagge pugliesi. Ricordo ancora quel pomeriggio in mezzo alle dune di Campomarino.
Il lavoro non procedeva per nulla bene e per lavorare spendevo più di quello che guadagnavo. Quel mestiere l’avevo scelto non per piacere ma per convenienza: mio padre aveva campato una famiglia di cinque persone per trent’anni. All’inizio andava bene, sempre in viaggio, casa in montagna, “macchinone” e poi, nel 2011, il tracollo.
Proprio in quel periodo passavo più tempo in sede agli scout che in giro in auto: è stata una scelta semplice, ma complicata. Come potevo “andare al passo del più debole” scegliendo una vita lavorativa al posto del puro volontariato?
In quei mesi mi sono messo a caccia di esperienze nel campo del sociale che si sostenessero economicamente e dopo diverse ricerche mi sono imbattuto nell’agricoltura sociale. Andai a trovare il prof. Senni dell’università della Tuscia, uno dei maggiori esperti nazionali di agricoltura sociale. Mentre parlava di esperienze rodate, mi disse: “Angelo, il pomodoro non giudica, puoi farlo coltivare a tutti. Tutti inclusi e nessuno escluso”. Quella frase mi illuminò il viso. Nel 2011, attraverso una vendita di beneficienza, riuscimmo ad acquistare tutto il necessario per allestire un orto di circa 2.000 metri quadri all’interno di un terreno del comune di Casamassima concesso a un’associazione di famiglie con parenti disabili. Tutto cominciò lì, una palestra per noi che non sapevamo nulla di come si facesse agricoltura collaborando con persone con disabilità.
Sono stati tre anni bellissimi, in cui abbiamo dimostrato sia ai contadini sia alle famiglie che si poteva fare. Cene a Km0, mercatini, eventi, tutto mentre ognuno del gruppo continuava il suo lavoro e investiva in questa nuova avventura. A gennaio 2014, abbandonato il lavoro da agente, lavoravo come portiere all’interno dell’Opera Pia del Carmine di Bari.
Il presidente in carica, l’Ingegnere Vito Lafortezza, mentre ascoltava il racconto di quello che stavo realizzando, mi disse che la stessa Opera Pia era proprietaria di un terreno a Japigia: due ettari con pozzo e casa. Tutto questo a una condizione: costituire una cooperativa sociale. Detto, fatto: ad aprile 2014 la costituimmo e prendemmo in gestione il terreno. Con pochi spiccioli, riuscimmo ad avviare le attività nell’orto certificato biologico. Fu durissima.
Il posto era per la maggior parte in stato di abbandono e durante il primo anno e mezzo abbiamo subito furti di ogni genere, difficoltà a reperire risorse finanziarie oltre alla poca fiducia in quello che facevamo. Tutto quello che guadagnavamo dalla vendita degli ortaggi, dai lavori che ognuno di noi faceva in parallelo venivano lasciati in cooperativa pur di poter realizzare il nostro sogno.
È stata dura, lo è ancora. Con uno sguardo al passato proiettati verso il futuro, oggi possiamo raccontare alcune esperienze che la cooperativa sociale Semi di vita è riuscita a costruire: gestiamo una piccola serra all’interno dell’Istituto superiore Gorjux di Bari dove, con i ragazzi e le ragazze del Gruppo H, circa 30 studenti, coltiviamo funghi cardoncelli destinati alla vendita nel nostro negozio a Japigia; abbiamo creato una rete di produttori – cooperatori sociali, cinque aziende, con cui produciamo una ventina di referenze di conserve, chiamata Bontà Comune; stiamo realizzando nell’Istituto Penale per minorenni N. Fornelli di Bari (in collaborazione con lo stesso, il Ministero della Giustizia e il DPM di Puglia e Basilicata) una serra per produrre funghi di 400 metri quadri destinata alla formazione e lavoro dei ragazzi detenuti all’interno della struttura; siamo aggiudicatari del bando di Gara del Comune di Valenzano per l’affidamento di 26 ettari confiscati alla mafia.
Nessuno di noi si aspettava tutto questo. Molto probabilmente, riflettendoci un po’, non ci rendiamo conto di quanto i sacrifici di quattro anni, oggi, siano stati premiati da questi progetti. Sappiamo solo che avevamo fatto una scommessa: creare lavoro nell’ambito dell’agricoltura dando la possibilità a persone che vivono uno svantaggio di vita o di salute. L’obiettivo non è pienamente raggiunto, siamo pochi in cooperativa ma con quello che stiamo costruendo non possiamo che augurarci di riuscirci. E noi… speriamo che ce la caviamo!