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SCENEGGIATORE (il quarto capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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Fellini rievocava la stagione dei suoi inizi come L’età dell’oro, un lungo periodo spensierato in cui, in coppia con Tullio Pinelli, scriveva copioni per registi illustri prima della guerra.
I suoi erano umoristici bozzetti alla Attalo, allietati da ricordi soprattutto gastronomici. Gennaro Righelli verso mezzogiorno si annodava intorno alla vita un canovaccio bianco e si metteva in cucina a preparare due spaghetti sciuè sciuè, per corroborare gli spiriti. Poi regolarmente con lo stomaco pieno la voglia svaniva e la seduta veniva rinviata al giorno dopo, con esiti non dissimili.
A casa di Alfredo Guarini che aveva sposato la maliosa Isa Miranda, nel salone saturo di fumo si attendeva invece con impazienza l’ingresso della diva, invariabilmente accompagnata da una torta preparata con le proprie mani. La discussione veniva immediatamente sospesa per l’assalto alle generose fette tagliate dal marito.
Per Sergio Amidei, frequentato soprattutto in occasione di Roma città aperta, Federico non nutriva una spiccata simpatia e quando ne parlava atteggiava istintivamente il volto alla spocchiosa supponenza di un clown bianco. L’atmosfera perdeva invece ogni languore romantico nelle riunioni in cui era presente Cesare Zavattini, che Federico sapeva imitare a perfezione. Lo scrittore di Luzzara debordava in una serie di inarginabili sproloqui, coglieva uno spunto a caso e partiva per la tangente, spesso inseguendo una trama che non aveva nulla a che vedere con l’argomento in questione.
Nel 1944 insieme a Za, Federico ventiseienne aveva scritto il soggetto di Quattro passi fra le nuvole, interpretato da un amabile Gino Cervi. Trent’anni dopo, in occasione dell’uscita nelle sale del Casanova, una mattina venne recapitata nell’ufficio di via Sistina una missiva scritta a mano dal padre nobile di ogni sceneggiatore. Federico lacerò impaziente la busta: vi erano contenuti giudizi entusiastici a proposito del film sull’amatore veneziano, ma anche un’accigliata riserva sulla sequenza romana di Lord Talou. Durante la festa nel palazzo patrizio, provocati ad arte dalla folla sovreccitata degli invitati, Giacomo Casanova e Righetto, il cocchiere dell’ambasciatore inglese, si sfidano sulle reciproche capacità amatorie: chi dei due, scegliendo la dama che gli va più a sangue, riuscirà a portare a termine senza pause il maggior numero di amplessi. Nel film vince ai punti il Cavaliere di Seingalt, stremato, con cinque copulazioni. E qui Zavattini si inalberava in pirotecniche escandescenze contro l’impresa del risibile seduttore. Dati e prove alla mano, assicurava che approdato a Roma da giovanotto, ed eccitato dall’improvvisa libertà della Capitale oltre che dal licenzioso ambiente del cinema, aveva fornito prestazioni ben superiori. Nella sua camera ammobiliata aveva attratto un’attricetta consenziente e, chiusa a chiave la porta, non ne era riemerso se non dopo dieci, si dicono dieci, colpi di fucile uno di fila all’altro, senza tirare su il fiato. “Stanato soltanto dalla fame – precisava – a tarda notte”. Il mitico aedo emiliano – buon sangue non mente – ne faceva una questione d’onore, ma anche di principio: date a Cesare quel che è di Cesare!

Fellini si divertiva a ripercorrere l’inizio del suo apprendistato cinematografico in cui tutto sembrava risolversi in un gioco senza sforzo, dove l’impegno era minimo e il guadagno cospicuo. Non poteva essere considerato lavoro un’attività in cui bisognava dare libero sfogo alla fantasia, spassarsela a inventare battute, buttare giù qualche dialogo di scena e alla fine uscire dalla comune senza quasi nessuna responsabilità sul buon esito finale del film. Un clima spensierato nel quale il futuro regista compendiava l’avventura stessa del cinema.
Tra tutte le fasi di lavorazione di un film però, poneva al primo posto la “preparazione”: un limbo ancora vago, euforico, dorato, in cui si partiva in macchina per i sopralluoghi, tre o quattro allegri perdigiorno alla ricerca delle ambientazioni adatte alle riprese esterne, in realtà ben più occupati a scegliere la trattoria in cui fermarsi a pranzo a spese del produttore.
In tanti anni di sodalizio non l’ho mai sentito riferirsi alla stesura della sceneggiatura come un compito impegnativo. Piuttosto tendeva a sminuire, a ridurre il tempo dedicato a un copione (“un paio di settimanelle…”) come se l’idea si formasse da sola, per autogenesi. In ogni caso al suo fianco c’era Pinelli, di che cosa avrebbe dovuto impensierirsi? Nella privata cosmogonia di Fellini, Pinelli abitava sulla stessa nuvoletta di Nino Rota, venuto al mondo per giocare al cinema con lui: incontri del fato, misteriosi come la vita, su cui non c’era altro da aggiungere.
Quando scrivevano a doppia firma le sceneggiature per la LUX dell’ing. Riccardo Gualino, Federico parlava, proponeva; l’altro raccoglieva le idee e le disponeva dentro una struttura: “Eravamo una coppia di sceneggiatori molto richiesti e molto impegnati – rievocava Pinelli – vivevamo con Federico un periodo di intenso lavoro quotidiano, elaborando soggetti per Rossellini, Lattuada, Germi, Coletti, Righelli, Franciolini e tanti altri.”
Così quando toccò a Fellini passare dietro la macchina da presa, la ditta era già ben collaudata e l’affiatamento non venne mai meno. A contrasto con l’aspetto esteriore di Tullio, austero, scabro, da piemontese roccioso, Fellini riconosceva allo scrittore più anziano uno spiccato spirito umoristico, una vena lirica non comune e la naturale indulgenza verso le debolezze umane, specialmente degli amici! Insieme erano coalizzati contro ogni moralismo e contro ogni approssimazione, incrollabilmente complici.
Pinelli, che si era sempre tenuto prudentemente discosto dal set, durante la lavorazione di 8 ½ aveva sviluppato un improvviso interesse per le riprese. “Lo vedevo comparire, inaspettato, – diceva Fellini – e trattenersi anche a lungo in quella confusione di luci, cavi e binari, che gli era del tutto estranea”. La consueta noia per i tempi morti della lavorazione svaniva come d’incanto per la presenza di una bellissima signora francese, Madeleine Lebeau (già apparsa in Casablanca), che nel film interpreta l’attrice contrariata dall’irrisolutezza del regista ad assegnarle una parte.
La donna, assai avvenente, può adombrare l’ardente, ma ieratica sensualità di Caterina Boratto; e Pinelli se ne innamorò al punto, ahi set galeotto! da farla sua sposa.
In quell’epoca che va dall’esordio fino a metà degli anni Sessanta, a collaborare con Fellini c’erano altre penne di gran talento, Flaiano, Brunello Rondi. Il metodo rimaneva pur sempre il medesimo, Federico affidava le sequenze da sviluppare, e ciascuno procedeva separatamente. Poi riuniva le stesure, si metteva ai tasti della sua Olivetti Lettera 32, aggiustava battute, mutava l’ordine, incollava, tagliava, aggiungeva, intarsiava. E alla fine il materiale finiva in mano a Pinelli; l’ultima stesura letteraria, pronta per la copisteria e per il produttore, spettava rigorosamente a lui.
Federico trovava ammirevole e generoso Brunello Rondi, “capace di arrivare la mattina con cinquanta cartelle elaborate durante la notte su uno spunto appena accennato conversando”. Ed era affascinato dalla cultura e dalla ‘affilata intelligenza’ di Ennio Flaiano, il quale probabilmente meno fecondo sul piano della scrittura di base, si rivelava insostituibile nell’apporto dei suoi contributi fulminanti. Il Glossario infatti ha in serbo per lui una voce a sé.


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