Le ragioni del mio giudizio negativo sul reddito di cittadinanza gialloverde sono diametralmente opposte a quelle usate dal Pd, che riesce anche in questo caso ad attaccare il governo da destra. Una posizione incomprensibile: la prima proposta di reddito minimo garantito venne nel 1997 dalla Commissione Onofri, insediata dal governo Prodi.
Ha invece ragione Lorenza Carlassare: realizzare un reddito di base significa attuare il progetto politico della Costituzione, rimuovendo almeno qualcuno degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Ma la domanda è: il reddito gialloverde è un reddito di base, o è un’altra cosa?
L’obiettivo del reddito di base non è quello di un sostegno temporaneo nella ricerca di un qualunque lavoro, ma al contrario quello di affrancare dal ricatto della sopravvivenza chi altrimenti non sarebbe in condizione di poter scegliere. Per questo serve una misura che duri finché le condizioni economiche di colui che ne usufruisce non cambino: mentre quella approvata dal governo è un aiuto a tempo determinato (massimo 18 mesi), che poi riconsegna il cittadino all’arbitrio del mercato. Non sfuggirà, pur tra mille diversità, una contiguità culturale con le misure una tantum di Renzi, e prima ancora con la social card. La visione che sorregge ogni vero reddito di base riconosce, al contrario, il valore della produzione sociale che sta fuori da quello che non a caso si chiama il ‘mercato’ del lavoro.
È, cioè, un investimento pubblico che punta sulla crescita di un modello alternativo a quello dominante: perché ritiene che la coesione sociale e la sottrazione di larghi strati sociali a una condizione non dignitosa sia conveniente sia sotto il profilo sociale sia sotto quello strettamente economico. Il reddito gialloverde non ha nulla a che fare con questa visione. Lo rende chiaro la retorica profusa dal governo sulle norme cosiddette ‘antidivano’: “Traspare – ha scritto il direttivo italiano del Basic Income Network, che pure ha dichiarato di guardare con interesse a questa indubbia svolta – un’attitudine a considerare i beneficiari del ‘reddito’ come responsabili della propria condizione di bisogno e dunque suscettibili di essere gestiti burocraticamente e persino spostati geograficamente a discrezione dell’ amministrazione.
Le mancanze anche lievi nei rapporti tra i percettori e l’ente erogatore sono sanzionate con una severità che non trova riscontri in alcun’ altra misura del nostro sistema di welfare; le eventuali violazioni da parte di alcuni membri della famiglia ricadono su tutti i membri in violazione del principio di responsabilità individuale”. Appare, poi, inutilmente punitivo e umiliante l’obbligo alle otto ore di lavori socialmente utili, che contribuisce a configurare la povertà come una colpa da espiare.
Inoltre, la definizione di reddito di base impone che esso sia diretto a tutti coloro che percepiscono meno del 60% del reddito mediano del Paese: dunque, non solo ai poveri attuali, ma a tutti coloro che rischiano di diventarlo, o che comunque non riescono a essere davvero liberi nelle loro scelte. Sta in questo abisso (4,5 milioni di persone invece di 9 milioni) la differenza fondamentale che separa un vero reddito di base sia dal reddito di inclusione dei governi Pd, sia da questa diversa forma di Rei pentastellato.
Inoltre, l’esclusione di fatto dei migranti (oltre a essere palesemente incostituzionale) è l’ ennesimo provvedimento con cui il governo affossa ogni idea di possibile integrazione, preparando altre munizioni per quella guerra tra poveri a cui la Lega deve il suo consenso. Nella scorsa legislatura, 91 deputati e 35 senatori del Movimento 5 Stelle avevano firmato per un progetto di reddito di dignità grande il doppio di quello approvato, veramente democratico e antisistema. Poi ha prevalso, non solo in questo campo, la normalizzazione.
Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2019