Quel cambio di direttore non è significativo solo del destino di un giornale

0 0

Se fa un po’ sorridere la dichiarazione di “orgoglio” dell’uscente direttore di Repubblica, Mario Calabresi, laddove vanta che “la discesa delle copie si è dimezzata: era al 14 ora è sotto il 7”, i suoi editori avrebbero comunque torto se l’avessero licenziato per la sua incapacità di reagire al calo di vendite, peraltro sofferto un po’ da tutti i quotidiani non solo in Italia. Proprio essi, Marco e Rodolfo De Benedetti, l’avevano assunto nel gennaio 2016, quando Calabresi, pur essendo considerato un bravo giornalista, già allora non vantava certamente un curriculum e

una reputazione di gran confezionatore di prodotti giornalistici. Sapevano bene il tipo di direttore che prendevano dalla Stampa, nel dicembre 2015 – tre mesi prima che incorporassero nel gruppo Espresso anche l’antica testata torinese – per affidargli il timone della nave ammiraglia. Uno scrittore, uno con una sua “visione del mondo”. Insomma, non un professionista alla maniera di Carlo Verdelli, scelto ora dai due eredi De Benedetti per prendere in mano, dal 19 febbraio, il timone del quotidiano che fu, ai tempi d’oro, il più venduto e insieme il più autorevole in Italia.

Già prima della direzione triennale di Calabresi, la Repubblica aveva perduto durante la direzione ventennale di Ezio Mauro – a parte il titolo di “più venduto” evaporato sin dalla seconda fase dell’altrettanto ventennale direzione del fondatore Eugenio Scalfari – anche quello di “più autorevole”. Il Corriere della Sera, a cominciare dalla direzione di Paolo Mieli, nei primi anni Novanta, aveva assorbito la lezione scalfariana, reagendo e riconquistando l’un titolo e l’altro.

Sgombriamo subito il campo dall’elemento-vendite, ovviamente fondamentale anche per un’azienda giornalistica. Vediamo quale era la situazione al gennaio 2016 –  frutto  esclusivo del lavoro di Mauro oltre che della crisi generale del settore – quando Calabresi si insediò. Il Corriere vendeva una media di 326 mila copie al dì e la Repubblica di 233 mila. Addirittura, a voler essere capziosi, di fatto non era più nemmeno il secondo giornale più venduto. E comunque non più solitario su quel secondo podio. Di poco, di appena tremila mila copie, lo superava il Quotidiano Nazionale (con le tre edizioni/testate Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno, mentre sia Repubblica che Corriere contavano e contano rispettivamente su una decina di vere e proprie edizioni locali). Sul totale delle vendite sia cartacee che digitali, Repubblica era surclassata dal Corriere (402 mila contro 287) ma superava il QN (239 mila).

Tre anni dopo, cioè al dicembre 2018, la situazione non è molto cambiata, se non in peggio per tutti.  Per quello che riguarda il cartaceo, la Repubblica diretta da Calabresi è scesa da circa 233 mila copie a 157 mila (meno 76 mila circa) ed è stata superata dal QN (oggi a quasi 203 mila copie), ma ha perso meno copie del Corriere (sceso da 326 mila a 206 mila). Sul totale carta-digitale, situazione più o meno analoga: Corriere a 278 mila copie, Repubblica e QN appaiati a 206 mila (evidentemente i “locali”, avvantaggiati in edicola, godono di minore appeal in rete).

Conclusione: il problema-vendite , con le sue conseguenze su conti, organico e futuro aziendale, c’era prima di Calabresi e permane a Calabresi licenziato. E si tratta di un aspetto della questione-direzione probabilmente sottovalutato o trascurato dall’editore quando sostituì Mauro con Calabrese. Ora lo stesso editore, con la scelta di Verdelli, dimostra di considerarlo giustamente centrale ma forse, chissà, anche esaustivo dell’intera “questione”.

Non a caso, rivelando egli stesso con un tweet la decisione dell’editore, Calabresi ha tenuto a manifestare “l’orgoglio di  lasciare un giornale che ha ritrovato un’identità e ha un’idea chiara del mondo”, prima ancora che per il dimezzamento della discesa delle copie. Con un secondo tweet, rivendicava la “battaglia per una stampa libera e non ipnotizzata dalla propaganda dei nuovi potenti”, facendo riferimento alle quotidiane paginate di cronache, retroscena, commenti ed editoriali critici con il governo M5S-Lega. E poi “abbiamo innovato tanto sulla carta e sul digitale e i conti sono in ordine”.

Non a caso, il successivo comunicato del Gruppo Gedi sul cambio di direzione conteneva, a proposito dell’entrante Verdelli – quasi a contraltare – espressioni quali “direzione forte”, “solida esperienza”, “capacità di direzione” e “talento innovativo”. Di tutto questo, nella sostanza, l’editore ritiene di aver bisogno in questa fase della vita del giornale – bisogna dirlo, dopo aver goduto della piena collaborazione di Calabresi per far passare un pesante “progetto riorganizzativo” con tagli e uscite – e di tutto questo ritiene evidentemente essere stata carente almeno l’ultima fase della gestione-Calabresi.

In realtà, la direzione di Calabresi è stata altalenante e contraddittoria, con momenti alti e registri bassi, contenuti solenni e note ai limiti del pettegolezzo specie in politica interna, per non parlare di ossessive “campagne” contro (per esempio, Salvini e i “grillini”) o a favore di qualcuno (in particolare di homines novi o papi stranieri officiati per il Pd, da Pisapia a Calenda). “Passione e curiosità” ma anche, come gli si rimprovera, assenze prolungate dalla gestione redazionale quotidiana. Empatia ma anche eccesso di delega e mancanza di capacità di controllo (“direzione forte” ,“capacità di direzione”) sulla squadra, ufficio centrale e redazione interni in particolare.

A Calabresi e al suo staff va dato il merito di aver realizzato, nel 2017, un’ardita riforma grafica. Non a caso la sua rimozione è stata in questi giorni commentata così da Vittorio Feltri, campione incomparabile del giornalismo e della titolazione ispirati alla grossolanità e alla volgarità. “L’ipotesi più probabile è che costui abbia gestito malaccio il rinnovamento grafico del foglio, trasformando lo stesso in una specie di lapide mortuaria, triste, anemico e slavato e quindi inadatto a suscitare un minimo di interesse nei lettori”. In realtà, dopo una prima fase storica in cui la Repubblica aveva imposto a tutti i giornali italiani una grafica moderna e vivace e una titolazione forzata, e dopo una seconda fase in cui essa aveva perso ordine e chiarezza alla vana e scomposta ricerca di qualcosa di ancora più forte e forzato, il giovane designer Francesco Franchi aveva disegnato “una scansione ordinata e chiara, per orientarci nel caos in cui viviamo”. In sostanza, la Repubblica, che aveva dato inizio alla modernizzazione del linguaggio mediatico italiano negli anni Settanta, decideva di andare in controtendenza rispetto al modo gridato e spesso sguaiato in cui era ed è sprofondata la comunicazione in Italia. “Un giornale oggi ha senso di esistere se spiega i contesti, se va alla radice dei problemi, se indica le conseguenze dei fatti e le possibili soluzioni”, spiegava Calabresi. “Un giornale ha senso se può offrire ai lettori materiali di riflessione, analisi e punti di vista. Se può svolgere una funzione fondamentale per la democrazia: la critica”. Ma nella pratica, il direttore ha inserito e lasciato inserire, specie in politica interna, toni battaglieri e interventi sulla realtà che hanno contraddetto spesso la lineare compostezza e il tono pacato e riflessivo che quella grafica promettevano e promettono.

Alle origini delle contraddizioni di Calabresi, forse a sua insaputa, parrebbe esserci il suo contraddittorio rapporto con il giornale di carta e con il web. Nel 2016, a pochi mesi dal suo insediamento, la Repubblica promosse un dibattito da titolo Ha un futuro il giornale di carta? Furono invitati a parlarne, con il neo-direttore, il direttore di Internazionale Giovanni De Mauro e il direttore di Origami Cesare Martinetti, vale a dire due pregevoli testate di carta che però hanno contenuti che indubbiamente si possono gestire e leggere anche su una testata on line. Calabresi affermava in quella occasione che il giornale di carta avrebbe un futuro e certamente un presente solo se approfondisse e spiegasse gli avvenimenti. Come se su una testata on line non si potesse approfondire e spiegare. Ascoltando con attenzione e rispetto l’interessante dibattito (http://infodem.it/analisi.asp?id=4920), si può facilmente rilevare che non uno dei ragionamenti e non una delle affermazioni dei tre autorevoli colleghi costituiva in una qualche maniera elemento a supporto della insostituibilità del giornale e del giornalismo di carta rispetto a quello on line. In considerazione del fatto che ci sono certamente altri argomenti per sostenere che il giornale di carta ha ancora un presente e forse anche un futuro – come ritiene con convinzione anche chi scrive – in quel caso sembrava quasi di essere di fronte ad un episodio di eterogenesi dei fini, cioè di conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali. Senza volerlo, Calabrese in primis sembrava portare acqua al mulino di chi sostiene – come si dice correntemente, come si dà generalmente per scontato e come in molti temono – che i giornali non abbiano futuro e, già oggi, siano praticamente degli zombies.

Questo era ed è Calabresi, che dirigeva e che, dal 19 febbraio, non dirigerà più quello che è stato probabilmente uno dei più grandi fenomeni giornalistici (su carta) della nostra storia.

E veniamo a Verdelli. In sostanza, un papa straniero (ha collaborato dall’esterno alla redazione milanese nei primi anni del giornale e poi, per un altro breve periodo, nel 2013-2015). Una scelta che deve essere collegata alla particolare natura di Repubblica, alle sue due direzioni ventennali, al “fondatore” direttore-editore, al carattere, alla “visione del mondo” e ai molteplici rapporti di Carlo De Benedetti prima e poi alle incertezze, chiamiamole così, dell’attuale gestione editoriale (si pensi solo al caso di Tommaso Cerno, fatto improvvisamente direttore dell’Espresso proprio nel 2016, fatto altrettanto improvvisamente e stranamente condirettore di Calabresi a Repubblica nel 2017, e tre mesi dopo in aspettativa per farsi eleggere senatore per il Pd).

Si può capire che i De Benedetti – non sapendo cosa fare di fronte a quella che appare a tutti, anche ai diretti interessati, in cuor suo anche a Calabresi, un declino inarrestabile – abbiano scelto di andare per le spicce. Identità? Visione del mondo? Vabbè, quelle se ci sono, ci sono; se ci si può lavorare, ci si lavorerà. Intanto mettiamoci uno che ha già dato prova di saper fare prodotti editoriali. Sette, Gazzetta dello Sport, Vanity Fair… Ha dimostrato anche carattere. Basti vedere come se ne è andato dalla Rai dopo due anni, sbattendo la porta, da direttore editoriale per l’informazione. Notoriamente direttore forte e talento innovativo. Se non riesce lui a vendere più copie, chi altri potrebbe farlo?

Certo l’ideale sarebbe stato uno che avesse, insieme, una visione del mondo forte e identitaria, capacità gestionali e attitudini creative. Scalfari era uno così, ai suoi tempi: ha fatto squadra, ha inventato, ha gestito, ha pure eterodiretto la politica. Ezio Mauro ha saputo rimediare con la sua scrittura, con la sua fermezza di capo squadra, con il suo caratterino, persino con la sua asprezza. Dove lo trovi un altro? Pare che nei mesi scorsi qualcuno lo abbia persino sondato per un ritorno, ma lui ha fatto orecchie da mercante. Ha già dato. Un altro nome per il quale sarebbe stato fatto un pensierino è Giulio Anselmi, forse l’unico in circolazione della genìa degli intellettuali manager, del giornalista che ha una “visione del mondo”, sa fare il prodotto e ha carattere da vendere. Forse troppo, per un  editore, non solo per gli eredi di CdB.

Quando lasciò la direzione della Stampa, nel 2009, Anselmi consegnò al suo successore – proprio al trentanovenne Mario Calabresi, alla sua prima esperienza direzionale – quello che era in quel momento il più bel giornale italiano. Sarebbe stato uno scambio al contrario, esattamente.

Ma non è andata così. Di certo, dal 19 febbraio, la Repubblica avrà un editore in una qualche misura rassicurato ma ancora un po’ in apprensione e un direttore, Carlo Verdelli, in grado di sorprenderlo.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21