ei giorni in cui il ritorno del “caso Diciotti” scuote la maggioranza di governo, occuparsi del lato albanese della vicenda, periferico e privo di implicazioni giudiziarie, può sembrare un puntiglio. Ma almeno da queste pagine è importante farlo. Due sono i fatti che ho provato a verificare. Primo: diversamente da quanto si è detto e scritto, nessuna delle persone scese dalla nave Diciotti la notte tra il 25 e il 26 agosto 2018 è mai arrivata su suolo albanese. Secondo: diversamente da quanto si è detto e scritto, né il governo italiano né il governo albanese hanno mai lavorato al trasferimento in Albania di una quota di quello sbarco. Un’opzione inedita e controversa, ma in linea teorica perseguibile, qualora si fosse proceduto a verificare la disponibilità dei singoli cittadini eritrei a presentare la propria domanda di asilo in Albania. Un tentativo che non è mai stato fatto.
Agosto 2018, tempo di emozioni
Torniamo con la mente al 20 agosto scorso: le vacanze stanno finendo, la Diciotti è ancorata nel porto di Catania. Dopo cinque giorni di polemiche per il negato sbarco, ai 137 rimasti a bordo viene finalmente concesso di scendere. Profili web di rango ministeriale – perfino l’account twitter della Farnesina – presentano “la decisione albanese di accogliere 20 profughi della Diciotti” alla stregua di una svolta risolutiva: Roma sottolinea la pretesa e ottenuta distribuzione della responsabilità (addirittura al di fuori dei confini europei!), Tirana enfatizza il gesto di amicizia nei confronti di un paese amico, in passato solidale con gli immigrati albanesi. Quattro minuti dopo il cinguettio della Farnesina, la replica del ministro degli Esteri albanese Ditmir Bushati è ancora più calda: “Italia! Non possiamo sostituire l’Europa ma siamo sempre qui, dall’altra parte di un mare dove una volta eravamo noi gli eritrei a soffrire tra i flutti per giorni e notti, aspettando che l’Europa si risvegliasse. Ieri l’Italia ci ha salvati e oggi siamo pronti a dare una mano”. In quelle assurde ore di entusiasmo degli opposti – a destra si raccolgono i frutti dell’intransigenza, a sinistra i frutti della solidarietà – l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) è l’unica voce online a ricordare che l’Albania non fa parte del sistema di asilo europeo e che per trasferire in un paese terzo richiedenti asilo che si trovano su suolo italiano è necessario il consenso dei diretti interessati.
Gennaio 2019, tempo di oblio
In un paese d’emigrazione come l’Albania – nel 2017 più di ventimila albanesi hanno chiesto asilo nell’Ue – l’annunciato arrivo di venti richiedenti asilo dall’Eritrea aveva destato qualche perplessità; ma anche oltre Adriatico la narrazione dominante fu di matrice governativa: “Il messaggio è stato speculare a quello circolato sulla stampa italiana – raccontano i volontari di Operazione Colomba della missione di Scutari, che per lavoro monitorano quotidianamente la stampa locale –, l’Albania paese europeo, l’Albania con il cuore grande come nel 1999, quando si aprirono le porte ai profughi kosovari, l’Albania che accoglie perché ha memoria della sua storia d’emigrazione… I giorni dello sbarco furono accompagnati da questo discorso appassionato, tanto che noi ci eravamo ripromessi di seguire gli sviluppi, ma da settembre a oggi non abbiamo più letto né sentito nulla”.
Lo scorso 15 gennaio il ministro degli Esteri Moavero Milanesi si è recato in visita a Tirana. In due giorni di permanenza la parola “Diciotti” non è mai stata pronunciata; vi ha fatto cenno in maniera indiretta l’omologo albanese Bushati, con parole che riporto alla lettera: “È stato davvero un piacere per me oggi dare il benvenuto a Tirana al ministro degli Esteri italiano, il mio collega e amico Enzo Moavero, con il quale abbiamo avuto una collaborazione, eccellente, direi, non solo sul piano interstatale, poiché l’Albania considera l’Italia come un partner strategico, la nostra porta per l’adesione all’Unione europea, ma anche sul piano umano, a partire […] dalla crisi del Mediterraneo, durante la quale l’Albania ha cooperato con l’Italia, dando la possibilità, in linea di principio, ad un gruppo di rifugiati di essere accolti in Albania”.
A cinque mesi dallo sbarco, l’accoglienza albanese non è più il momento di svolta di una crisi particolare – con tanto di quota in cifre: 20 – ma un’eventualità generale, valida a tempo indeterminato e ancora tutta da verificare. Non potrebbe essere altrimenti, visto che gli sbarcati della Diciotti non si trovano più in Italia.
Destinazione famiglia
La distribuzione “senza oneri per lo Stato italiano” del carico umano della Diciotti non doveva coinvolgere solamente l’Albania, ma anche l’Irlanda e soprattutto la Conferenza Episcopale Italiana (CEI), da subito disponibile all’accoglienza.
I primi a scendere, il 23 agosto, sono i minori, accolti in una struttura ministeriale FAMI gestita dalla cooperativa Prospettiva. “Per la nostra legislazione e per la convenzione sui diritti del fanciullo cui l’Italia aderisce l’interesse del minore è superiore, dunque per loro un trasferimento in un altro paese non era proprio ipotizzabile”, taglia corto Piero Mangano di Prospettiva. Tre giorni dopo scendono i 137 adulti: dal porto di Catania vengono condotti all’hotspot di Messina, ex caserma Gasparro del rione Bisconte, gestito per conto della Prefettura dalla cooperativa Badia Grande. Il 28 mattina i pullman della CEI passano a prendere la propria quota; in attesa dello smistamento tra le diocesi che si sono dette disponibili, l’organizzazione preleva un centinaio di persone e lo conduce nel centro di accoglienza straordinaria Mondo Migliore di Rocca di Papa, alle porte di Roma. Rimangono nell’hotspot 39 persone, teoricamente in attesa di essere trasferite in Albania e Irlanda, almeno così riportano i principali giornali italiani . Oggi sappiamo che andò così solo in parte: “Dei 39 rimasti a Messina – spiega Antonio Manca, Presidente della cooperativa Badia Grande – 16 sono partiti per l’Irlanda, 1 è andato a Milazzo, gli altri hanno abbandonato il centro con il passare delle settimane. È sempre la prefettura a scegliere le relocation, in base alla disponibilità del momento e non alle preferenze dell’ospite. Per quanto riguarda l’opzione albanese di cui mi parla – conclude – posso dirle che nell’hotspot non se n’è mai parlato e che la Prefettura non ci ha mai comunicato nulla al riguardo, noi operatori la abbiamo sempre considerata una speculazione giornalistica”.
Ho ricevuto una risposta simile da tutti gli operatori che sono riuscito a contattare: da quelli di Intersos, a bordo della nave, che della solidarietà albanese hanno appreso dai giornali, fino agli operatori della Papa Giovanni XXIII, che arrivati a Rocca di Papa non trovano cinque delle persone che avrebbero dovuto prendere in carico, perché già in viaggio verso il nord Europa. A dieci giorni dallo sbarco, metà dei 137 non si trova più . La polemica infuria , ma la ragione è semplice: i centri di accoglienza non sono luoghi di detenzione, gli ospiti sono liberi di allontanarsene e la loro volontà era quella di ricongiungersi ai famigliari (a volerla conoscere, la diaspora eritrea ha una sua storia e una sua geografia). Andrea Costa, portavoce di Baobab Experience – da lui definito “centro di accoglienza informale di Roma” – ha conosciuto di persona buona parte degli eritrei della Diciotti, e li ricorda così: “Per noi i migranti in transito non sono una notizia, gli eritrei di quello sbarco non erano diversi da tutte le persone del Corno d’Africa che cerchiamo di aiutare. Quei cinquanta o sessanta di loro che, con dei pullman noleggiati, abbiamo portato a Ventimiglia, lasciandoli nel campo Roja della Croce Rossa, volevano soltanto ricongiungersi: andavano in Belgio, Olanda, Germania, ci ho parlato e posso dirvi che di Albania non avevano mai sentito parlare”.
Il 5 settembre il deputato di +Europa Riccardo Magi partecipa alla commissione Affari costituzionali alla Camera, e in quella sede rivolge al sottosegretario di Stato per l’Interno Luigi Gaetti un’interrogazione per sapere “con quali criteri e procedure si intendono individuare, tra gli oltre cento migranti sbarcati dalla nave Diciotti, quelli da trasferire in Albania nel rispetto della Costituzione italiana, della normativa nazionale e delle convenzioni internazionali in materia di asilo”. “A queste domande – dichiarerà l’onorevole – non ho ricevuto alcuna risposta, se non un generico richiamo a un’interlocuzione in corso con le autorità albanesi e al fatto che l’Albania sia considerato un paese sicuro”.
A oggi della Diciotti rimangono su suolo italiano tre persone, tutte a carico della Comunità Papa Giovanni XXIII. “Sull’Albania noi avevamo dato disponibilità al ministero direttamente – dichiara un operatore –, ma non si è mai concretizzato nulla, credo per questioni di diritto”.
È possibile chiedere asilo in Albania?
“L’Albania ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 e il suo quadro normativo si sta adattando all’acquis europeo”, spiega Amarilda Lici, giurista di origini albanesi che nel pieno della tempesta mediatica, nei giorni in cui il trasferimento sembrava imminente, ha studiato per ASGI la legislazione albanese sull’asilo. “Stando alla legge 121/2014, entro e non oltre quindici giorni dalla presentazione della domanda di protezione internazionale lo stato albanese deve informare il richiedente circa i suoi diritti; da quanto ho potuto constatare la fragilità del sistema albanese non risiede nelle norme, ma eventualmente nello stato delle istituzioni deputate al processo della domanda di asilo, che secondo l’Ue hanno margine di miglioramento”, conclude Lici.
Secondo l’ultimo report pubblicato dalla Commissione europea (pp 37-40 ), nel 2017 hanno presentato domanda di asilo in Albania 309 persone (nel 2016 erano state 241). Le domande – poche ma in crescita, anche se buona parte di queste, probabilmente di provenienza siriana, è poi stata ritirata – vengono registrate dalle autorità di frontiera, dopodiché passano al Direttorato per l’asilo politico e la cittadinanza, un’istituzione che ha subito una radicale riorganizzazione nel dicembre 2017. In linea di principio, i ricorsi possono essere presentati alla Commissione nazionale per i rifugiati e l’asilo, ma anche quest’organo è stato istituito solamente nel 2017, e sinora ha analizzato tre casi. Infine, anche il sistema di accoglienza è alle prime armi: a Tirana e Argirocastro sono stati rinnovati i due principali centri di gestione statale, ma la Commissione auspica miglioramenti soprattutto per quanto concerne la gestione di casi di fragilità e la tutela dei minori e delle donne.
In sintesi e tornando al caso Diciotti, qualora, su base volontaria, 20 persone avessero accettato di essere trasferiti in Albania, la loro domanda di asilo avrebbe forse incontrato una cornice giuridica di stampo europeo, ma sarebbe stata processata da un sistema giovane e inesperto, di cui la Commissione europea monitora i progressi ma certifica al contempo la fragilità. Fatti, anche questi, che dovrebbero essere presi in considerazione da una politica seria, responsabile delle vite che nomina.
Un inquietante caso di social-diplomazia
Nessuna persona scesa dalla Diciotti è mai giunta in Albania. Perché senza consenso degli interessati quella “soluzione” era fuori dalla legalità, perché nessuno dei due governi ha dimostrato una volontà politica che andasse oltre annunci funzionali al consenso, perché come emerso dai racconti rimasti lungo il tragitto, l’obiettivo di quelle persone non è mai stato l’Italia, ma la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Germania: paesi ricchi, nei quali raggiungere la famiglia. Insomma, nessuno è arrivato in Albania perché nella realtà delle cose quella proposta non aveva alcun senso.
Nella sua dimensione italo-albanese, il caso Diciotti ha combinato tre strati di fake news: giuridica, politica e umana. Un rancido mix di mistificazioni venduto online anche dalla Farnesina; un fatto questo particolarmente grave, perché anche al tempo di internet le istituzioni dello stato dovrebbero dimostrarsi di materiale nobile, impermeabile alle manipolazioni del politico di turno (e soprattutto alla propaganda di un governo estero). È importante dirlo: sulla nave Diciotti non hanno preso accordi due paesi amici, ma due staff di comunicazione. Concordando timing e contenuti delle loro uscite, i social media manager di Matteo Salvini, Edi Rama e dei loro accoliti ci hanno preso per la collottola e ci hanno chiuso nella vasca delle palline, a condividere e commentare articoli come questo : a parlare di niente . Lo stesso avviene oggi, quando nella migliore delle ipotesi condividiamo l’hasthag #portiaperti, dimenticandoci che i porti italiani non sono mai stati chiusi , e quindi amplificando il messaggio e sdoganando la stortura legale di chi ci fregiamo di contrastare. Attendiamo pure l’eventuale epilogo giudiziario, ma la nave Diciotti ci ha già insegnato tutto quello che poteva sul momento vissuto dalle nostre democrazie, italiane o albanesi che siano.