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Nella tivù di Stato nasce RaiDoc, una struttura per la produzione di documentari. Ma nessuno racconta la vera storia di come ci si è arrivati…

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Viviamo da sempre di grandi titoli sulla Rai. In questi giorni siamo passati da quelli sulle dichiarazioni di Baglioni riferite ai migranti a quelli per il presunto rientro in pompa magna di una giornalista anni fa allontanata, disse l’azienda, per aver abusato come corrispondente da New York di denari pubblici. Quello che invece è passato quasi totalmente sotto silenzio, è un passo importante fatto dall’azienda pubblica col varo di RaiDoc,  la nuova struttura dedicata al genere documentario formalizzata con l’ultimo Cda. Non una libera  scelta dei vertici, ma un dovere imposto dall’ultimo Contratto di servizio sottoscritto da Rai col ministero dello Sviluppo economico, sancito da un passaggio dell’articolo 7 : “Assicurare un presidio aziendale dedicato allo sviluppo del genere documentario e al coordinamento dei relativi investimenti”. Un passaggio, questo, fortemente voluto e fatto inserire oltre due anni fa nel nuovo documento che concede a Rai l’esclusività del Servizio pubblico (e quindi anche l’incasso del canone) da Roberto Fico, allora presidente della Commissione di vigilanza Rai, da Vinicio Pelufffo (membro Pd della stessa commissione). E sia Fico che gli altri, sarebbe grave non sottolinearlo,  furono a loro volta sensibilizzati da una iniziativa precisa. Perché a chiedere a gran voce la nascita di quello che oggi è RaiDoc  fu, come ampiamente documentato anche dalle cronache dei tempi,  una battaglia civile che chiedeva all’azienda l’istituzione di un “Laboratorio permanente di produzione e scuola di cinema documentario”. Una iniziativa portata avanti fin dal lontano 30 ottobre 2007 dove, dalla sala stampa del Senato, il sottoscritto fu affiancato da Ettore Scola ( “Importante portare avanti questo progetto di Laboratorio Rai sui documentari”); a Sergio Zavoli (“Sono disponibile a mettere a disposizione la mia esperienza in un progetto che solo la Rai può e deve realizzare”); così come da Padre Alex Zanotelli, dalla Federazione nazionale della stampa, da alcuni sottosegretari e parlamentari del tempo e da vari rappresentanti della società civile con Articolo 21 che sostenne anche una partecipata raccolta di firme sul tema. Rilanciata nel 2013, durante la reggenza Tarantola – Gubitosi e con in testa alcuni giornalisti e documentaristi Rai come il compianto Santo Della Volpe e Filippo Vendemmiati, insieme al rinnovato sostegno di Sergio Zavoli, la campagna si affacciò anche a Venezia. Dove, alle Giornate degli autori della settantesima edizione del Festival del Cinema, oltre all’adesione e alla gratuita disponibilità di registi come Giuliano Montaldo e di sceneggiatori come Stefano Rulli, allora anche presidente del Centro sperimentale di cinematografia, registrò l’offerta di una vetrina ad hoc, durante le edizioni degli anni a venire, proposta dall’allora direttore della Biennale Alberto Barbera. Ma non fu tra i clamori del Festival veneziano che l’idea smise di camminare. Seguirono per mesi dibattiti e interventi sulla carta stampata, rassegne di documentari realizzate ad hoc, momenti pubblici come la prima assemblea di documentaristi Rai per sostenere il progetto organizzata alla Casa del cinema di Roma (presente tra gli altri anche Gerardo Colombo, allora membro del Cda Rai). E ancora: incontri con l’allora presidente della Vigilanza Rai Fico e poi Peluffo e così via. Perché si trattava di una proposta trasversale che rientrava nel campo largo di Rai come Bene comune che oltre alla sana valorizzazione delle risorse interne aveva (ed ha) il dovere di raccontare, documentare senza veli il Paese e i cambiamenti del mondo intero così come di tenere sempre viva la memoria su avvenimenti non solo legati alla contemporaneità. Ma nulla convinse i vertici Rai di allora a prendere concretamente in considerazione quel progetto nato del tutto fuori dalle segreterie dei partiti o da qualsiasi interesse di casta o lobby che dir si voglia. Così andava il mondo in quegli anni. Gli unici che successivamente vollero ricordarsi di far nascere quella struttura, pur senza la parte formativa legata alle giovani generazioni di autori, registi e tecnici, furono in primis i 5 Stelle con Roberto Fico e il Pd con Peluffo a far da capofila, come ricordato qualche riga fa. Questa, la verità storica dei fatti, inequivocabile, documentatissima. Nessuno per questo vuole medaglie di latta o  pur tardivi riconoscimenti, ma che almeno sia rispettata la vera storia di come e perché è nato questo nuovo e importante presidio di Servizio pubblico. Che ci auguriamo la ‘nostra’ Rai riesca a non buttare da una finestra secondaria.

Stefano Mencherini, giornalista indipendente e autore e regista Rai


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