Lo scempio sanguigno della festa. “A. Semu tutti devoti tutti?” della Compagnia Zappalà Danza al Verga di Catania

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La metonimia della scena – il contenitore per il contenuto – ovvero la fitta cortina di reggiseni per circoscrivere lo spazio e rievocare quel martirio, segnalava – già al suo splendido debutto, dieci anni fa – la cifra di “A. Semu tutti devoti tutti?”, la coproduzione Teatro Stabile di Catania e Scenario Pubblico/ Compagnia Zappalà Danza – Centro Nazionale di Produzione della Danza, in collaborazione con MilanOltre Festival, inserita nel cartellone principale dell’attuale stagione.

Con questa creazione Roberto Zappalà investe il logos religioso di un’accezione trasversale e disturbante proprio a partire da Sant’Agata, l’icona per eccellenza del sacro a Catania, restituendocene significati e ambiguità lungo il suo progetto di ri/mappatura e della Sicilia e della suo immaginario. Il rovesciamento scaturisce proprio da quel punto interrogativo: “semu tutti devoti?” E in quali forme si esplica questa devozione? Di quali distrazioni – e distruzioni – si nutre? Quali abissi svela? Sul palcoscenico di un Verga straripante, questi interrogativi concentrano, ora come allora, una massa enorme di energia che i corpi danzanti dispiegano lungo uno spettacolo di altissimo spessore.

Sull’incessante brulichio della festa in sottofondo, irrompe l’incipit autoflagellante di una voce narrante. Il suo è uno spelling anche corporeo – muscoli, tendini e parole – una terribile requisitoria: “Vedo l’affare. L’avanspettacolo. L’altare sul quale tutto si sacrifica, l’adunata, l’abbacchio che tutti sfama, l’abbeveratoio che tutti disseta. L’affare”: Sant’Agata degli Apostati e delle Scommesse Clandestine.

Ed è proprio sulle note di “Money for nothing” dei Dire Straits che la Compagnia Zappalà Danza (Adriano Coletta, Alain El Sakhawi, Akos Dozsa, Salvatore Romania, Antoine Roux-Briffaud, Fernando Roldan Ferrer, Massimo Trombetta), aggroviglia la sua tensione in un compulsivo e frenetico affresco della festa, calato in una atmosfera di luce fosca e fumosa – a cira, u focu, a simenza, a canni arrustuta ppi strada – quasi di nera lava, in cui sembra affogare insieme allo spettacolo tutta la città, marcando, nel bailamme di una sant’agata privatissima e barbara, un’adorazione carnalmente patriarcale, dunque selvaggia e assoluta. La dimensione ferina della devozione si declina attraverso corpi maltrattati e battuti, spocchiosi e alteri, in autocelebrazione davanti alla “vara”. Corpi che si infrangono sulla nuda e castissima solitudine di Agata (Maud de la Purification): i gesti concitati e scomposti dei primi contrapposti alla ieratica luminosità di un corpo santo, proiettato oltre ogni fisicità. Eppure è proprio il corpo della Santa – che ondeggia sopra tutto e tutti – a debordare, a scomporre lo spazio e l’anima entro una dimensione non-terrena. E’ una meta-Agata quella che si impone sulla scena, fermata e sospesa in grumi di pose plastiche e di luce caravaggesca.

“A. Semu tutti devoti tutti?”, del quale lo stesso Zappalà firma regia e coreografia, in collaborazione con Nello Calabrò, che ne ha curato la drammaturgia – inscrive così la mitologia del culto agatino in quella di una forza spocchiosa e convulsa da scatenare nei giorni della festa, magari anche allo stadio, magari contro qualche “sbirru”, con un delirio da ultras onnipotente – Sant’Agata del Derby – e i cori imbandierati dalle tribune dello stadio. In questo modo lo spettacolo straccia l’iconografia ortodossa (e stereotipata) della Santa e la trasforma in una trascendente e solitaria figura dell’esclusione – Agata mater dolorosa – che assiste al suo stesso scempio, ad un altro, ennesimo, martirio: quello ferale e sanguigno che “questa” festa impone. Ma è la sua stessa assenza renderla immanente; è quel corpo distante, martire e silente; è nella carne ferita che abita la scena; è nell’estenuante sequenza in cui procede a spalla in una cadenza da venerdì di Passione; è nella luce sanguinolenta della città, sospesa in una perenne deposizione: Sant’Agata dei Morti Ammazzati.

E questa lacerazione assoluta tra il suo Corpo e i corpi dei devoti si palesa anche e soprattutto nella dimensione sonora: se Agata è volutamente muta (o costretta ad esserlo) i suoi devoti sono volgarmente e fisicamente logorroici: “oggi la città è nostra” urla ad un certo punto uno di loro, sospeso in una oscena posa da anticristo, in una sorta di mantra criminale.

“A. Semu tutti devoti tutti?” mette così in scena un ossimoro: da un lato il “corpo” dei mafiosi e il “corpo” dei devoti dall’altro quello di Agata; la logorrea cieca e senza luce dei primi opposta all’eloquente silenzio dell’altra, sullo sfondo del densissimo tessuto sonoro di Puccio Castrogiovanni (eseguito dai Lautari), dei lacerti singhiozzanti della chitarra elettrica della “cantantessa” Carmen Consoli, della soavità del canto delle Benedettine e delle note struggenti di Mahler su cui si conclude una toccante e profondissima sacra rappresentazione. Lo stesso Roberto Zappalà, sul palco, ricuce i dieci anni che separano lo spettacolo dalla “prima” del 2009: se allora aveva denunciato la cruda e quotidiana degradazione in forma di ‘devozione’, sciorinando fatti e nomi – dai Santapaola ai Mangion fino a quel Pietro Diolosà, presidente del Circolo S. Agata, che la direzione nazionale antimafia e la procura distrettuale avevano indagato – ora, in una sorta di censimento tra luci e ombre (le nuove regole della festa, l’assoluzione di tutti gli indagati), indica la necessità, per laici e credenti, “cittadini” comunque, di continuare a vigilare e a riflettere.

“A. Semu tutti devoti tutti?”rimane un altissimo grido di dolore, un atto di accusa e di fede contro la Catania empia e blasfema che questa devozione non può certo redimere e attraverso la quale la libertà di testimoniare Cristo diventa utopia e disordine, insurrezione contro le leggi che la regolano: un martirio che – con la disposizione da parte della prefettura della scorta per il “capovara” Claudio Consoli e per monsignor Barbaro Scionti dopo la “rivolta” di alcuni “devoti” – come quello di Agata, non sembra ancora finire.


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