“Vattene, Sporco ebreo”. E’ più di un insulto, è quasi un programma, che ormai si srotola nel corso dei secoli, rilanciato recentemente dai tanto ammirati “Gilet gialli” contro il filosofo ed intellettuale Alain Finkielkraut. E’ un insulto, ripetuto milioni di volte nel corso della storia, che risuona quando scopia una rabbia sorda e cupa contro tutto e tutti, contro l’ebreo, brutto, sporco e cattivo, che deve “andarsene”, chissà dove, lontano da “casa nostra”. L’insulto antisemita -che è all’origine di ogni razzismo- più di qualsiasi altro, dovrebbe farci sobbalzare, indignare e spaventare, perché abbiamo visto a cosa ha portato e perché riemerge come un cancro della nostra “civiltà” occidentale. L’insulto antisemita dovrebbe essere un tabù, “impensabile” e “indicibile”, proibito a priori, cancellato definitivamente dalle nostre menti. E invece no. Serpeggia e riemerge sempre più spesso, nell’indifferenza e quando i freni inibitori si allentano e le parole si fanno più cattive, anche dentro le stanze ovattate della politica. Il senatore grillino Elio Lannutti, quando ha scritto -in un immancabile tweet- che “I protocolli dei Savi di Sion” sono alla base del sistema bancario internazionale, ovviamente dominato dai Rothschil, avrebbe dovuto essere incenerito politicamente, prima per ignoranza e poi per antisemitismo, e forse anche licenziato dal suo scanno parlamentare per indegnità. E invece no. Appena un buffetto, una formale “presa di distanza”, ormai dimenticata da tutti, e il solito, ipocrita, “sono stato frainteso”.
Se in Francia, la terra dell’ “affaire Dreyfus” e –per fortuna- del “J’Accuse…” di Émile Zola, l’antisemitismo si addensa nelle banlieue islamizzate, non ha mai abbandonato i “piccoli francesi” e si moltiplica nelle svastiche nei cimiteri ebraici, in Italia, “patria” delle leggi raziali, trova il miglior brodo di cultura nelle curve degli ultras, egemonizzate dai neofascisti, che usano il sorriso triste e gentile di Anna Frank come un insulto.
Dall’altra parte c’è chi maschera un latente antisemitismo con l’antisionismo e la condanna dell’esistenza dello stato d’Israele. Su questo è inciampato anche il leader laburista Jeremy Corbyn, che poi si è scusato, ma troppo tardi. Non ci sono scuse nemmeno per chi vuole vietare alla “Brigata ebraica”, integrata nella VIII Armata Britannica, di sfilare in occasione del 25 aprile, dimenticando il tributo che diedero gli ebrei alla lotta antifascista e alla Resistenza. Qualcuno dovrebbe spiegare a questi antifascisti immaginari, spesso dediti allo squadrismo, che si può dissentire dal governo israeliano e dalla sua politica di insediamento nei territori occupati, ma non si può negare il diritto all’esistenza dello stato d’Israele. Del resto è antica la diffidenza nei confronti degli ebrei, senza patria, erranti per definizione, cosmopoliti ante litteram, dai “ghetti” italiani alla cacciata o alla conversione forzata dei “marranos” nella Spagna del 1492, alla ricerca della “limpieza de sangre” dopo la fine della Reconquista; dalla Polonia iper cattolica alla Russia sovietica, anche se l’intelligenza ebraica era stata un elemento importante nella sua rivoluzione, a partire da Lev Trockij, fondatore dell’Armata rossa.
In questa prospettiva è stato pessimo il confronto, a Trieste, come se si trattasse di un osceno derby, tra la “Giornata della Memoria”, il 27 gennaio, in onore della Shoah, e il “Giorno del Ricordo”, 10 febbraio, per le vittime delle foibe da parte delle truppe di Tito, troppo spesso dimenticate. Anche chi ci governa dovrebbe sapere che –se il dolore e la pietà per le vittime è identico- l’orrore per la Shoah, per lo sterminio pianificato e “scientificamente meccanizzato” di un popolo, non può essere confrontato con altre immani tragedie che hanno attraversato il “secolo breve”. Per questo, noi, che viviamo al sicuro nelle nostre tiepide case, abbiamo il dovere di non dimenticare.
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