A fine marzo l’assemblea di Strasburgo e – a seguire- il consiglio dell’Unione europea- diranno probabilmente l’ultima parola sulla direttiva sul Copyright in the digital single market. Insomma, uno dei più brutali scontri di potere dell’ultima legislatura europea si chiude con un compromesso onorevole tra le parti in campo, vale a dire i produttori di contenuti da una parte e il mondo della rete dall’altro. Quest’ultimo è stato interpretato purtroppo dagli Over The Top piuttosto che dal mondo dei navigatori curiosi ed innocenti delle prime ondate di Internet. La soluzione è stata trovata dopo che il clamore delle tifoserie di luglio e settembre si è attenuato.
E’ intervenuta verosimilmente una regia generale più pacata, guidata dalla scelta tutta politica di chiudere la partita entro il voto di maggio per evitare un salto nel buio nell’indefinibile rapporto di forza del prossimo parlamento.
E così, dopo gli esiti positivi del cosiddetto “trilogo” (13 febbraio) che raggruppa i tre co-decisori (parlamento, consiglio e commissione) e grazie al voto a maggioranza in sede “coreper” (la riunione dei vari paesi, rappresentati dai rispettivi ambasciatori, tenutasi il 20 c.m.), infine è arrivato il disco verde dell’autorevole comitato per gli affari legali (JURI). Era l’ultimo ostacolo prima dell’annunciato happy end. L’Italia sempre contro, ma con scarso peso.
Che si sia trattato di un accordo politico è dimostrato dalle modifiche apportate al testo di settembre che, lette fuori contesto, suscitano modesta passione filologica.
Ricapitoliamo. I due articoli oggetto della contesa erano l’11 e il 13. Il primo riguarda la tutela degli articoli di informazione che non possono ora essere “piratati” impunemente, salvo l’utilizzo di singole parole, di piccoli estratti e di i brevissimi sunti dei pezzi. Una mediazione utile per preservare le prerogative dei giornali, ma nel contempo non scioccamente coercitiva verso siti e blog di news. Gli editori e le organizzazioni sindacali italiani ed europei hanno portato a casa un punto a loro favore. Come, del resto, ma già nei testi precedenti e su altri articoli, i mondi della creatività culturale.
Il secondo dei testi rimane un territorio di potenziali (e inesorabili) conflitti. L’unico vero merito del negoziato finale è forse quello di aver circoscritto e definito i confini del problema. Vale a dire: ribadito che sarà cura proprio dei vari Google o Facebook approntare un apposito software di pronto intervento contro le violazioni, il dispositivo è stato alquanto attutito. Gli stati membri, ecco uno dei punti di maggiore novità, potranno introdurre eccezioni rispettose della facoltà di critica, delle citazioni, del settore delle riviste; o delle caricature o parodie. Tra l’altro, la direttiva nel suo complesso evoca con qualche elasticità i recepimenti nazionali. Dunque, un testo . pur dal sapore censorio- meno ferreo del temuto.
E’ mancata completamente nella discussione una riflessione aggiornata sul nesso tra proprietà e diritto degli autori ad essere remunerati: le due categorie non è detto che siano indissolubilmente connesse. La tutela del lavoro intellettuale, sacrosanta, ha varie strade per essere perseguita. Si tratta, infatti, di un negoziato in cui la fertile tradizione dei creative commons – le opportunità contrattuali differenziate- e della cooperazione dei e tra i saperi è la novità che segnerà il secolo della rete.
Quindi, è auspicabile che si chiuda positivamente la vecchia contesa, per aprirne finalmente una aggiornata: negli approcci e nelle soluzioni.