Compito cosiddetto istituzionale della critica è quello di andare a teatro per assistere ad uno spettacolo, e di conseguenza, darne conto ai propri lettori con la pubblicazione di una recensione come valutazione dell’esito artistico. In una fase storica in cui vengono meno certe priorità e valori anche culturali, il compito del critico sembra subire delle difficoltà legate al ruolo etico deontologico, causate anche da una crisi dell’editoria legata al mondo dei media e alla pubblicazione dei quotidiani della carta stampata. Il web si è assunto l’onerosa responsabilità di seguire il processo artistico-teatrale affinché non venga meno la diffusione di un pensiero critico, funzionale alla crescita di un teatro capace di rispondere alle esigenze di una società in mutamento, e una categoria di critici impegnati nel divulgarne le sue qualità. Pronta a segnalare anche le incongruenze e le scelte artistiche (dalla resa scenica alla drammaturgia inclusa la regia e la recitazione) non del tutto risolte. Non tanto per consegnare un giudizio sull’opera al pubblico, come ancora avrebbe avuto senso fare fino a qualche decennio fa, ma con l’intento di affiancare il lavoro di chi il teatro lo fa sui palcoscenici. La critica si è rivolta sempre più a spazi alternativi come i siti e i blog sostituendosi ai giornali, a firme prestigiose e affermate del passato, alimentando una spinta e una crescita esponenziale (gli stessi professionisti sono stati dirottati dalla carta al web) con esiti non sempre lusinghieri. Da qui si passa alla tradizione ormai inflazionata dei premi teatrali forse in qualche caso autocelebrativi, rispetto alla categoria della critica stessa.
È un modo di far emergere delle firme, in un presente storico in cui hanno lo stesso spazio e strumenti a disposizione per esprimersi? Cosa rende la “voce” di un critico più autorevole di un’altra? Il rischio è quello di diventare autoreferenziali. Senza scadere nel qualunquismo della discussione credo sia importante sottolineare un dato di fatto: molte giurie sono nate a dismisura a fronte di un panorama teatrale (composto da compagnie, artisti, teatri, festival, rassegne, ecc.) che nel corso degli anni ha conosciuto sempre più ostacoli: economici ma anche artistico creativi.
I premi sembrano dover sostenere la stessa sopravvivenza del teatro, nelle sue varie declinazioni, grazie ai tanti riconoscimenti attribuiti (spesso) agli stessi artisti che vengono in qualche modo “rincorsi” dai giurati.
Uso il termine improprio di rincorrere per spiegare cosa avviene in molti casi: gli stessi critici appartengono a più giurie con la responsabilità di scegliere attori, registi, e compagnie teatrali ai quali attribuire un premio. Il rischio è quello di ritrovarsi a scegliere gli stessi o diversificare per non rischiare di ripetersi. Mi si potrebbe obiettare che la categoria è talmente vasta da poter evitare una sorta di sovrapposizione. In realtà il problema è ancor più stringente: nomi celebri di attori e registi sono stati “promossi” decine di volte nel corso della loro carriera sempre dallo stesso Premio. Si arriva quindi a sottoporre la domanda, che vuole anche essere auto-rivolta: i premi oggi hanno ancora un valore e un’attribuzione di merito tale da essere considerati un vero sostegno al difficile, estenuante, prezioso contributo che il teatro offre alla cultura?
Forse dovrebbero essere considerati degli alleati ad una crescita della qualità artistica e non correre il rischio di “autopromuoversi”, partecipando ad un rituale che in alcuni casi appare superato ( la scelta di diffondere le proprie motivazioni ancor prima della finale e della proclamazione dei vincitori), quando invece sarebbe più interessante percorrere i percorsi di alcune realtà artistiche, attraverso un processo di conoscenza e analisi dei progetti, al fine di stimolare e contribuire, con uno spirito critico costruttivo alla loro poetica. L’ambito riconoscimento può dare impulso ad una vitalità artistica o si limita ad un’attribuzione di merito per incentivare (intento legittimo, sia ben chiaro) la possibilità di essere chiamati dai teatri e rappresentare i propri spettacoli? Possono offrire qualcosa di più costruttivo per la crescita di un teatro di qualità?
Il pensiero critico sulla validità o meno dei premi assegnati dalle numerose (se non troppe) giurie teatrali pone un’altra questione: quali conseguenze si possano verificare nella carriera di un artista al momento di ricevere un premio? Può questo ambito riconoscimento influenzare le scelte artistiche successive? L’artista ottiene una risonanza mediatica amplificata anche dai social network: un’enfasi a volte eccessiva se consideriamo anche il senso di “responsabilità” successivo al premio a cui vengono chiamati gli attori e i registi. La legittima gratificazione per il proprio lavoro deve essere ricercata anche in chi ha il potere di attribuirla: i critici chiamati ad esprimere un voto. Nello sport l’atleta deve raggiungere il traguardo per primo dimostrando di possedere maggior vigore e velocità al fine di salire sul podio. In teatro la valutazione del “primo arrivato”, per usare una terminologia sportiva, è affidata ai critici che compongono una giuria. Il paragone non deve necessariamente trovare un punto d’incontro tra due discipline così diverse, ma nella sostanza c’è un aspetto che le accomuna: la fatica sia dello sportivo che dell’artista nel raggiungere il traguardo e il podio. Nel caso di un attore, di un regista o di una compagnia c’è un ulteriore sforzo per riuscire a trovare stabilità economica e professionale. Una fatica intesa come fattore anche umano altrettanto importante del risultato artistico ed estetico. Se il premio è un momento di successo è altrettanto vero che il riconoscimento non porta sempre a migliorare la carriera di chi ha scelto la professione di fare teatro. La meritocrazia segnalata attraverso i premi si scontra con la burocrazia ministeriale delle tanto sofferte richieste di contributi e la promozione di giovani realtà artistiche: in Italia scarseggiano i produttori capaci di sostenerli.
Un esempio valga per tutti: la decisione sofferta di Roberto Latini di non presentare la domanda per i contributi ministeriali e, legata a questa, la scelta di non proseguire più la sua attività come Fortebraccio Teatro, in segno di protesta per come vengono erogati i finanziamenti, secondo parametri e algoritmi che penalizzano spesso la poetica artistica riconosciuto da una partecipazione di pubblico e dal riscontro sui media. Il termine merito(buro)crazia così composto da meritocrazia e burocrazia riassume due aspetti complementari di un unico obiettivo: ambire ad un premio e ricevere un adeguato sostegno per proseguire il proprio lavoro. Il teatro italiano dovrebbe affrontare il problema e cercare di formare una comunità più coesa come categoria professionale, capace di aderire a forme di rivendicazione (anche sindacale) mirate a sensibilizzare il pubblico, l’unico e vero destinatario del loro impegno, che paga il biglietto e chiede la possibilità di assistere a spettacoli di qualità. In un presente storico in cui sono evidenti le criticità del comparto dello spettacolo dal vivo, l’idea di sottoporre alla categoria un questionario, per verificare se un premio abbia facilitato i rapporti con le istituzioni pubbliche delegate a finanziare e sostenere la vita stessa del teatro, potrebbe essere un punto di partenza per confrontare le diverse realtà presenti su tutto il territorio italiano. Stimolare una forma di partecipazione corale di tutte le maestranze artistiche gioverebbe a tutti nell’intento di confrontarsi e riconoscersi in un unico soggetto. Il teatro italiano (come la musica e il cinema), merita di avere un ruolo primario nella cultura per difendere valori etici e morali spesso trascurati da altri settori della nostra società.
La cosiddetta “normalità” si insinua sempre più omologando e appiattendo anche ogni forma di pensiero critico. Riappropriarsi di una seria e obiettiva capacità critica, a prescindere dall’appartenenza militante che può essere anche condivisibile, sarebbe auspicabile .Quello che dovremmo fare è ricondurre (anche) la critica ad un dibattito e ad un confronto (che tutt’ora manca) aperto a tutte le posizioni, in cui discutere e analizzare dall’interno del nostro agire. Forse una delle cause che lo impediscono è la “deformazione professionale” che ci porta a “giudicare” tutto quello che accade fuori da noi, all’esterno, a quello che l’altro fa, con il rischio di allontanarci dalla responsabilità di cercare di capire il lavoro dell’artista al fine di indirizzare e formare un pubblico sempre più capace di seguire con uno sguardo consapevole e attento.
In copertina Il quadro di Théodore Gericault. La zattera della Medusa. Olio su tela, Parigi, Musée du Louvre