Tu, sanguinosa infanzia, la seconda raccolta di racconti di Michele Mari, esce nel 1997 per i tipi della casa editrice Mondadori (l’edizione Einaudi è del 2009) e consta di undici racconti. Il fil rouge dell’intera silloge è il tema dell’infanzia, già ampiamente presente in Euridice aveva un cane, e qui assunto a mitico evo popolato di mostri e di misteri, periodo fondante la vita dell’uomo, perduta e rimpianta età dell’oro che rimane, nella nostra esistenza di adulti, come una ferita mai rimarginata e in quanto tale sanguinosa. A questa ferita unico balsamo è il ricordo, nonché un maniacale, fanatico, feticistico furore conservativo che spinge l’adulto a custodire, repertare, catalogare e in ogni modo sottrarre all’opera distruttrice e obliante del tempo i cimeli e le reliquie che recano testimonianza del bambino che fu. Siano essi giornalini, macchinine, biglie, peluches, pezzetti di puzzle: tutto deve essere messo al riparo da mani «sacrileghe», tutto venerato come vestigia fossili e pur tuttavia ancora palpitanti «di un’età che chiede la pietà di un omaggio» (I giornalini).
Scrittore votato all’autobiografismo quant’altri mai, eppure non per questo incasellabile in quella categoria di autori che va sotto l’orrenda – lessicalmente – denominazione di autofiction oggi tanto in voga, Mari in questa raccolta, e non solo, proietta la propria essenza vitale nel personaggio di Michelino, già incontrato in Euridice aveva un cane e che tornerà, dieci anni dopo, in Verderame (2007): Michelino, come scrive Carlo Mazza Galanti, «è uno dei personaggi infantili più toccanti e più neri della letteratura italiana degli ultimi decenni, ben più nero dei numerosi bambini neri che da Simona Vinci a Paolo Giordano hanno popolato, in tempi recenti, i romanzi nostrani».
Il fantastico come fascinazione infantile, come precoce seduzione letteraria, come attrazione-repulsione, come mescolanza perigliosa ma rutilante di lusinghevoli misteri, latori di orride meraviglie e inquietudini suadenti, come orrore che si alterna all’incanto e vi si combina producendo un ambiguo struggimento («Perché c’era questo di intenso nelle copertine di Urania, che l’orrore vi si alternava all’incanto, e spesso vi si combinava in un’ambiguità che mi struggeva»): questo è il tema che innerva il racconto Le copertine di Urania, dedicato alla celebre collana di fantascienza, della quale il nonno dell’autore era un affezionato lettore. «Gli Urania del nonno erano per me la parte scura della letteratura», scrive Mari in una narrazione in cui i ricordi infantili si alternano alle schede tecniche riguardanti la veste grafica e altre caratteristiche paratestuali che hanno caratterizzato i volumi della collana nel corso degli anni (schede tipograficamente distinte dal resto della narrazione attraverso l’uso di un carattere più piccolo). La narrativa di Mari è da sempre popolata di oscure e inquietanti presenze che rimandano a un universo ctonio, il quale se da un lato risulta mostruoso, dall’altro è anche familiare – quasi domestico – poiché affonda le radici negli archetipici e ancestrali terrori infantili. Non è difficile dunque immedesimarsi nel bambino che nel suddetto racconto si lascia suggestionare dalle copertine di Urania e nella sua galoppante fantasia immagina il nonno, intento a leggere uno dei libri della collana, nella vesti di «un sacerdote sciamano» il quale attraverso quei testi viene iniziato «a orrendi e pur solenni Misteri»:
Se il nonno impunemente maneggia tutti quei mostri effigiati – è l’ammirata scoperta del suo cervellino – avrà stipulato con essi un accordo (accordarsi coi Mostri!), povero nonno, grandissimo nonno, costretto a non sbagliare mai nulla, il più piccolo errore e i Mostri saranno spietati con lui, con la nonna, con il nipotino che passa tutte le domeniche da loro, un solo risucchio, una maciullazione immediata. Allora, mentre il nonno legge uno di quei libri, il piccino lo scruta da lungi, simula un gioco dei suoi ma il ruolo di testimone lo investe, povero nonno, quali strazi sta soffrendo per noi, tutto bene nonno? La lettura sta riuscendo? E strisciare a qualche metro da lui senza farsi notare, piegare il collo per sbirciare ancora quelle forme d’incubo, dirsi che il nonno è al loro cospetto, sembra lì seduto ma è da loro, chissà in quale punto cieco dell’universo infinito.
Le «forme d’incubo» che tanta potente attrazione esercitano sul piccolo Mari sono le illustrazioni di Karel Thole, il noto illustratore olandese che a partire dal 1960 «illustrerà la collana per oltre trent’anni (con rare incursioni di Ferenc Pinter)». Le copertine ritraggono principalmente mostri, «mostri su mostri, […] d’ogni genere e forma», e quando «non erano mostri, eran vestigia o teatri di indicibili orrori»: in ogni caso, «sempre e comunque, l’iconografia dell’angoscia».
Un’iconografia che Mari descrive abbandonandosi a lunghe e dettagliatissime elencazioni, in un’apoteosi dell’orrore, che proprio attraverso la passione elencatoria dell’autore sembra ipertroficamente espandersi e tracimare fuori dalle pagine: dilagante blob affabulatorio che tutto ricopre e fagocita.
Estremo limite, sommo canone e vertice supremo della letteratura occidentale, gli Urania incarnano agli occhi del bambino ormai in grado di leggere, l’approdo e insieme il guiderdone di un lungo cammino iniziatico:
In quegli smilzi volumetti che mi attiravano e mi repellevano insieme il mio spirito tremebondo trovava tutta l’oscena oltranza che non trovavo negli altri libri. Mi convinsi così, verso gli otto anni d’età, che Il piccolo principe o Il libro della giungla fossero le tappe di un lungo processo iniziatico che mi avrebbe portato, dopo decenni e decenni di letture, a poter finalmente leggere, come il nonno, Il terrore della sesta luna di Robert Heinlein. E nomi come quelli di Heinlein, di Sheckley, di Clarke, di Simak, di Wyndham, di Matheson, di Silverberg, di Pohl, di Van Vogt formavano per me il supremo canone della letteratura occidentale, corona di spiriti superiori eletti dai mostri a rivelare agli umani le mostruose leggi dell’universo: e solo dubitavo, ammirandoli, se fossero ancora persone o se invece, assunti a tale stremo di conoscenza, non partecipassero essi stessi, nelle loro membra, di quella mostruosità.
I nomi degli autori finiscono per assurgere a suoni arcani, e, combinati in indivisibili sintagmi con i titoli delle opere, danno vita a filamentose catene di consonanti in tutto e per tutto assimilabili e formule esoteriche:
«Wyndham, Wyndham» sussurravo, e quel suono mi sembrava un vento proveniente da una città morta; «Simak, Simak», e sentivo serrarsi chele gigantesche; «Pohl», ed era una bolla, un’unica bolla, affiorante dal lago di melma ove si occultava la Bestia. […]
«Wyndham, Wyndham», vento di città morta, «Heinlein», murmure di lebbroso, «Dick», goccia di pioggia acida, «Clarke», deglutizione di immenso batrace, «Sheckley», granata di venusiano, «Wyndham, Wyndham… Wyndham…»
Giravo per la casa dei nonni associando quei nomi ai più belli fra i titoli di cui disponevo, ricavandone indivisi sintagmi che pronunciavo come formule esoteriche:
«Ericfrankrussellesentinelledelcielo»,
«Robertsheckleymaitoccatodamaniumane»,
«Charlesericmaineluomochepossedevailmondo»,
«Edmundhamiltongliincappucciatidombra»,
«Jamesgordonballardessiciguardanodalletorri».
Illuminante per comprendere la poetica e le concezioni letterario-esistenziali dell’autore risulta la chiusa del racconto: «Mio nonno è morto il 2 febbraio 1973, fra il n. 609 e il n. 610 di Urania. Io sono rimasto più indietro, fra i rombi». Si ricordi, come lo stesso Mari scrive nella prima delle schede tecniche poste a corredo della narrazione, che il rombo in cui «il marchio [Urania] viene a cadere», comparso nel 1962, «muore», vale a dire scompare dalle copertine, nel 1967, ossia allorquando l’autore aveva dodici anni d’età. Affermare dunque di essere rimasto «fra i rombi» equivale ad asserire, idealmente, di essersi fermato, e quasi rintanato e asserragliato, negli anni dell’infanzia, riconosciuti pertanto nella loro incontrovertibile e ineluttabile essenzialità di epoca che, attraverso gli eventi che la caratterizzano, getta le fondamenta di tutta una vita. Concetto ribadito anche nel racconto E il tuo dimon son io, dolente riflessione sul primo manifestarsi di struggimenti e desideri amorosi: presagio irrefutabile del definitivo tramonto dell’infanzia. Nel racconto un demone mostra a un uomo, che s’intuisce essere l’autore, una lunga teoria di lapidi marmoree le cui iscrizioni riportano i nomi di tutti i rivali che gli contesero il favore e le grazie delle fanciulle vagheggiate nella prima giovinezza. Tutti loro, rivela il demone, pur continuando apparentemente ad esistere tra i vivi, sono in realtà morti da molto tempo, ossia da quando egli, sentendo la «spaventosa grandezza» del dolore provato dal protagonista e l’altrettanto «spaventosa grandezza» del suo desiderio di veder scomparire per sempre il rivale del momento, non lo ha esaudito rubando «l’animula parvula» del malcapitato e trascinandola con sé «nell’abisso gelato». Così avvenne quella prima volta, così fu tutte le altre volte a venire. Null’altro rimane di quei miseri contendenti, qui sulla terra, che un «simulacro, [….] una spoglia secca, una forma, […] nient’altro che un involucro vuoto». Ma nel venirne a conoscenza l’uomo non ne prova «sollievo» perché, dice, «attimo dopo attimo ho vissuto come se anch’essi fossero vivi». E ora si aggira «fra le tombe, cercando un’impossibile consolazione in quei marmi», ben consapevole che «in quelle ceneri fredde bruciava ancora qualcosa di intollerabile, qualcosa che non sarebbe mai stato restituito».
Il mondo dell’infanzia, con la sua aura di incanto e di mistero, esercita ancora un fascino malioso, tanto più invincibile quanto più essa, l’infanzia, si rivela come vulnus, come ferita mai rimarginata e, in quanto tale, sanguinosa (come dichiara il titolo della raccolta). Quel tessuto che dovrebbe colmare la ferita e cicatrizzarla, ma che non riesce del tutto ad attecchire, è la vita adulta, vissuta come esilio dall’Eden infantile e come inevitabile tradimento: inevitabile perché tutti, nostro malgrado, siamo condannati al divenire dell’«orrenda vita da vivere». L’estremo desiderio da confidare al demone può quindi configurarsi solo come “regressione” in quel mitico paradiso perduto:
Prendere me, prima che conoscessi il desiderio. Al primo embrione di struggimento per il retro di un ginocchio, dove ci sono quelle sottilissime vene azzurrine; al primo languore per una treccia color miele fermata da un vellutino nero; al primo e incompreso malessere, via! Riportarmi indietro di quel tanto che fossero solo soldatini, macchinine, figurine, giornalini, e ghermirmi lì fra i diminutivi, ancora salvo, salvo per sempre, e concedermi di portarli con me un po’ di quei giochini, come un egizio, per compagnia.
Tu, sanguinosa infanzia è un libro che si avvita intorno a un’ossessione: quella dell’infanzia, appunto. Fulcro di tale ossessione – e colonna portante di tutta la produzione narrativa di Mari – è una concezione “regressiva” della letteratura. Scrivere è dunque un ritorno alle origini, un regredire a quel tempo mitico e fatale nel quale viene deciso il destino di tutta una vita («si decide tutto entro i primi sei-sette anni, dopo è solo questione di aggiornamento», scrive Mari in Rosso Floyd), un ritorno in utero, a quella placenta capace ancora di nutrire e dare rifugio. È un processo involutivo, una implosione che però, paradossalmente, rivela una formidabile carica estroversa nella misura in cui permette di «riattivare pulsioni» altrimenti irrecuperabili non solo nell’autore ma anche nel lettore, e di stabilire quindi un ponte comunicativo con l’altro. Altro inteso non solo come “altro da sé”, ma anche come l’altro che abita dentro di noi, il doppio, la parte oscura, il lato in ombra che molti temono di esplorare per paura di dover guardare in faccia il mostro, la Bestia, il mister Hyde che dimora dentro la nostra psiche. La letteratura è dunque tanto più regressiva, e tanto più nobilmente degna, quanto più ha per protagonisti personaggi lunari, notturni, cupi, gotici, una letteratura non “formativa” (nel senso manzoniano del termine) ma perturbante e seduttiva, in grado di innescare un corto circuito che renda ambiguamente indistinguibili le figure del personaggio e dell’autore.
Ecco cosa ha dichiarato Mari in una intervista ad Olga Campofreda:
‹‹Stevenson disse che scrivere L’isola del tesoro è stata una meravigliosa occasione di regressione. C’è una famosa discussione con il suo amico Henry James, James gli dice “Io non capisco come il mio amico Stevenson – che ha una penna magica e un talento divino – perda tempo con queste bambocciate puerili”. Stevenson risponde che era l’unico modo per riattivare le pulsioni di chi da bambino ha giocato ai pirati. Henry James ribatte dicendo: “io per esempio da bambino non ho mai giocato ai pirati, si tratta di un’immagine convenzionale”. Stevenson chiude la cosa molto elegantemente affermando: “Se il signor James dichiara di non aver mai giocato ai pirati da piccolo, si può stabilire con certezza che il signor James non è mai stato bambino, ma è nato adulto”. Io questo lo sento molto, questo aspetto regressivo nella letteratura, inoltre i pirati sono un po’ il corrispettivo delle botole, dei mostri, dei castelli, di tutto ciò che è avventuroso in senso cupo. Sono sempre stato innamorato dei personaggi cupi e al tempo stesso non dico simpatici, ma attraenti. Ho sempre colto un aspetto seduttivo, a volte quasi erotico nel vampiro, nello scienziato pazzo, in mister Hyde››.[ Intervista pubblicata sul primo numero della rivista Orlando esplorazioni, settembre 2013. I corsivi sono miei, nda]
Regressione all’infanzia significa anche recupero delle fameliche letture che l’hanno accompagnata, titillando e surriscaldando la fantasia del giovanissimo lettore.
Come accade in Otto scrittori, indimenticabile racconto – di certo uno dei più belli dell’ultimo trentennio di narrativa italiana – in cui Mari, da sempre avvezzo a colloquiare a distanza con i grandi del passato, intesse un dialogo con gli scrittori più amati della sua infanzia: Joseph Conrad, Daniel Defoe, Jack London, Herman Melville, Edgar Allan Poe, Emilio Salgari, Robert Louis Stevenson, Jules Verne. Attraverso uno spietato quanto straziante gioco a eliminazione, basato sulla comparazione delle opere dei suddetti scrittori, si giungerà all’epico duello finale tra Stevenson e Melville, fino al riconoscimento della incontestabile supremazia dell’autore di Moby Dick su tutti gli altri. Mari, ideatore e regista di questa roulette, orchestra la sua propria tortura intellettuale con inesorabile lucidità sadomasochistica, ma anche col compiacimento voyeuristico di chi ha modo di assistere in tutta la sua immanità a uno scontro fra titani. È una narrazione in cui il fantastico iperletterario – tipico dell’autore milanese – già desumibile nella compresenza sulla scena di autori vissuti in epoche diverse (Defoe, ad esempio è nato nel 1660, quindi almeno due secoli prima di tutti gli altri), raggiunge l’acme nel momento in cui, ridottasi la rosa dei nomi a tre grandissimi – Conrad, Stevenson e Melville – il giovane lettore assisterà al metamorfico trasfondersi dei tre scrittori l’uno nell’altro:
E Melville disse: io ho scritto La linea d’ombra.
E Stevenson disse: io ho scritto Moby Dick.
E Conrad disse: io ho scritto L’isola del tesoro.
E Melville disse: io ho scritto La linea di Dick.
E Stevenson disse: io ho scritto L’ombra di Moby.
E Conrad disse: io ho scritto Il tesoro.
E in un tremendo fragore di acque ribollenti Moby Dick disse: nato a Edimburgo in Polonia JimIsmashelLeggatt detto Billy Budd prese il comando del Pequod nello stesso anno in cui la tenebra della Sephora, laggiù nel Mar del Giappone, convinse il Dr. Trelawney – o era il Non- Shan, Lassù al largo del Cile? – lo convinse a ingannare il capitano Amaso Delano col Bollo Nero di Cane Nero cosicché il rimorchiatore di Falck, secondo il racconto di Herman figlio di Silver ascoltato a Nantucket da Marlow (un arpione, mi pare) perché il compagno segreto sì forse un arpione l’avorio di KurtzKorzeniowskiVailima Ben Gunn l’Hispaniola il mio colore è bianco sporco e oserai tu microbo insignificante mettere in dubbio la verità delle mie romanzesche parole che sono le loro che sono le mie?
Il confronto finale decreterà, come già anticipato, il trionfo di Melville, giacché – come Mari scrive nelle pagine a lui dedicate ne I demoni e la pasta sfoglia –
«la penna di Melville non poteva fare a meno di rendere grande tutto ciò che toccava». Tuttavia alla fine del racconto Mari con abile mossa recupera nuovamente tutti e otto gli scrittori che ormai sono parte integrante della sua persona, per salpare alla volta di un fantastico viaggio che contempli «una navigazione lenta e disordinata» con tutti i suoi «brandellini di carne ben attaccati addosso». Ma prima di operare questo recupero, come a voler tracciare un percorso di crescita che dall’ammirazione incondizionata e indiscriminata perviene ad una conquistata consapevolezza critica, capace di discernere in quella rosa di nomi, dei tratti peculiari e distintivi, il piccolo lettore è sfiorato dal dubbio che fra tutte quelle voci ve ne potesse essere qualcuna meno integrata nel gruppo, e non per intrinseca incapacità, ‹‹ma solo per una sostanziale differenza di interessi: a qualcuno stavano a cuore altre cose, qualcuno aveva sempre parlato di altre cose››.
Su questo aspetto Mari si è recentemente soffermato in una intervista pubblicata su www.illibraio.it il 12 novembre 2018: ‹‹È anche questo un racconto sulla crescita. Crescere fondamentalmente vuol dire imparare la critica, l’arte della distinzione, l’arte della separazione, le gerarchie, le differenze. Il bambino è onnivoro e mette tutto insieme, non distingue tra Giulio Cesare, Barbablù o un personaggio di fantasia; mentre il ragazzino che sente l’onere della crescita diventa un piccolo omino che studia, e deve scoprire chi è più vicino al centro e chi alla periferia. Quindi, suo malgrado, compie quest’opera che è, appunto, sanguinosa, perché è critica e censoria. Poi però, una volta arrivato alla fine dell’indagine, si prende il lusso di annullarla, perché recupera e riabbraccia ecumenicamente tutti quelli che aveva man mano eliminato e scartato. Per quanto riguarda il senso finale del racconto, è più importante l’ultima pagina di tutte le altre. È come imparare l’etichetta, imparare a mangiare bene in punta di forchetta e poi dirsi: ‘Bene, adesso so le regole quindi quando capiterà di essere invitato dall’ambasciatore potrò mangiare come si deve, però a casa mia preferisco mangiare il pollo con le mani’. Si tratta di imparare qualcosa per avere il lusso, in un certo senso, di regredire››.
Lungi dal voler essere esaustivi, si è scelto in questo articolo di analizzare solo tre racconti di Tu, sanguinosa infanzia, tre racconti in grado di esplicitare, attraverso il comune denominatore di un’ispirazione fantastica, la perdurante fascinazione esercitata su Mari da tematiche per molti versi fatidiche, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella elaborazione della sua concezione regressiva della letteratura.
Le copertine di Urania con i loro mostri effigiati, il desiderio più volte espresso di voler rimanere confinato nel tempo mitico dell’infanzia, tra i giochi e le letture di quell’epoca, per sempre al riparo dai turbamenti della vita adulta, dimostrano una volta di più come sempre per Mari scoprirsi cresciuti, o peggio ancora invecchiati, corrisponda alla dolente consapevolezza di essere stati ingannati e che solo il potente sortilegio immaginifico della letteratura può porre rimedio a cotanto scelo.m