BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Ecco perché sono a fianco di Monica Andolfatto

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La vicenda di Monica Andolfatto, finita nel mirino del clan dei Casalesi nel veneziano per aver fatto bene il suo lavoro, dà corpo a un sordo timore che covo da tempo: che il fecondo Nordest finisca nella rete delle criminalità organizzata per noncuranza, per insensata accondiscendenza, per connivenza, per pregiudizio, perché… “noi no”.

Sono figlia di due terre, il Veneto e la Calabria, le conosco entrambe tanto da amarle profondamente, pur nella loro diversità. Tanto da volerle proteggere nel mio piccolo.

Ricordo ancora quando chiesi al mio giornale, il Messaggero di sant’Antonio, di andare in Calabria per sondate come si vive giorno per giorno sotto la cappa del potere criminale. Non grandi fatti quindi, né morti ammazzati, né inchini durante la processione della Madonna, ma la possibilità di condividere, guidata dalla gente comune, il costante corpo a corpo con la mentalità mafiosa.

Era il tempo dell’apertura del Porto di Gioia Tauro (RC), una promessa di futuro, che un gruppo di sindaci della Piana – alcuni dei quali avevano ricevuto una lettera minatoria contenente un proiettile – avevano salutato come una nuova era di legalità e sviluppo: “Non vogliamo che le attività del porto siano inquinate dalla ‘ndrangheta” – mi avevano detto.

Nei giorni successivi, un gruppo di giovani mi guidò nella terra di nessuno. Mi indicarono gli esercizi commerciali che erano saltati in aria più volte, perché il proprietario stanco delle angherie e del pizzo sempre più esoso ogni tanto prendeva il coraggio a due mani e diceva “no”. Un giovane mi raccontò che aveva appena iniziato un’attività in proprio e che gli affari cominciavano a ingranare, ma che non si sentiva di mettere a posto lo squallido negozio che aveva: “Quelli l’avrebbero capito e sarebbero venuti”. Una ragazza mi disse che una banale lite di condominio era finita sotto il giudizio di un campo ‘ndrina, sollecitato da uno dei contendenti: e a quel punto la ragione finì da una parte sola. Un altro ragazzo si era inventato un’attività, la gente apprezzava e molti erano diventati clienti. Poi un appartenente alla famiglia più in vista aveva deciso che quell’idea era buona. La propose a sua volta pur non avendo i titoli di studio che quella attività per legge comportava. Buona parte dei clienti migrò; alcuni non diedero spiegazioni, altri dissero sottovoce “ho paura”.

Il giorno dopo, attraversammo in diagonale la piazza del paese. Era una domenica. D’improvviso, la mano di uno dei ragazzi mi strinse il braccio. Guardai la gente intorno senza capire. Gli occhi si posero su un uomo in particolare, distava meno di due metri alla mia destra. L’uomo mi restituì lo sguardo. Arrivati dall’altra parte della piazza, il ragazzo che mi aveva stretto il braccio mi chiarì il quadro: avevamo appena fatto da scudi umani al capo della famiglia più importante, quello che aveva incrociato lo sguardo con il mio: “Fanno sempre così: se devono attraversare un campo aperto, si mescolano tra la gente in modo da potersi difendere da possibili sicari”. Ma che vita è questa senza libertà di impresa, di movimento, di incolumità, di futuro?

La mia visita di concluse con l’intervista a Italo Falcomatà, il sindaco più illuminato che Reggio Calabria abbia mai avuto; prima di entrare nel suo appartamento un cane mi annusò a lungo per intercettare possibili esplosivi, mi frugarono la borsa: Il sindaco mi aspettava con la signorilità di un nobile meridionale, davanti a un’ottima tazza di caffè e dopo aver parlato di ‘ndrangheta mi disse: “Vorrei che i reggini fossero orgogliosi della loro città e tornassero a teatro e a passeggiare nel nostro lungomare, che rimane il più bel chilometro d’Italia”. Con me c’era, Rosario Cananzi, a cui devo molto per avermi aiutato a rendere autentico quel mio viaggio. Rosario era allora fotoreporter della Gazzetta del Sud, l’uomo che ha documentato molti dei delitti della più sanguinaria delle guerre di ‘ndrangheta, dal 1986 al 1991, 5 anni, 700 morti, fratelli contro fratelli, di ‘ndrine avversarie. Il suo studio era un museo dell’efferatezza umana: immagini di scie di sangue, di proiettili, di morti ammazzati: per sapere, per capire, per non dimenticare.

Nel viaggio di ritorno pensai a lungo a ognuno di loro. Io potevo andare di là, nel mio bel Nordest, di dolci colline, vino buono, fiorenti attività industriali, loro cercavano di stare di qua come meglio riuscivano, con una dignità che pochi potevano immaginare. Poco tempo dopo, uno di loro mi chiamo: “Le imprese del nord che sono venute al porto di Gioia Tauro hanno subito cercato un accordo con i clan per non aver problemi negli affari”. Allora non ho potuto accertare la veridicità di quanto mi diceva.  Purtroppo, però, era plausibile, come dimostreranno i fatti in seguito. La notizia fu come un colpo al cuore: la rabbia mi salì fino alla radice dei capelli. È facile essere onesti a casa propria, talmente facile da non vedere il nemico che si annida.


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