«Mi chiedo: come mai in un Paese come l’Italia che è schiantato dalle mafie, dai servizi segreti deviati, dallo strapotere della grande distribuzione, dove i giovani sono schiacciati da una gerontocrazia di mediocri raccomandati, come mai un Paese come questo invece di fare la rivoluzione se la prende con gli stranieri?». A questa domanda di molti cui ha dato voce Paolo Rumiz nell’intervista riportata nel bel libro di Donatella Ferrario “Sconfinare” (Edizioni San Paolo, 2018) ha risposto don Luigi Ciotti aprendo il 1° febbraio a Trieste gli Stati Generali dell’antimafia e affermando che «il problema del nostro Paese non sono i migranti ma i mafiosi». Affermazione non abbastanza rassicurante per la sindaca leghista di Oderzo, che temendo che Ciotti parlasse dei migranti e delle nefaste conseguenze delle politiche salviniane ha negato sala e patrocinio dell’Amministrazione comunale a un’iniziativa di Libera in programma domenica 10 febbraio nella cittadina veneta. I migranti, si sa, sono per il governo gialloblu un’arma di distrazione di massa, particolarmente efficace in un territorio, come quello triveneto, che continua a ritenersi esente da questo tipo di fenomeno: i disonesti e quelli che non hanno voglia di lavorare sono altrove, del resto non si registrano casi di omicidi mafiosi e se la mafia non uccide non esiste, non è un caso che quando si parla della così detta “mala del Brenta” non si usi per definirla il termine corretto di mafia. In realtà il mito dell’onestà nordestina cade davanti alle affermazioni di Mario Crisci, capo banda della società Aspide, che interrogato durante il processo nell’ambito dell’operazione “Serpe” (indagine che smantellò un’organizzazione camorristica in Veneto, nda) sulle ragioni che lo avevano portato a scegliere il Nordest per impiantare i propri traffici illeciti, così rispose: «Beh, siamo venuti qui perché qui sono disonesti. Più disonesti di noi. (…) …qui la gente non ha voglia di pagare le tasse, peggio che da noi.»
Ma la corruzione, ha ammonito sempre don Ciotti durante la plenaria d’apertura della tre giorni triestina, la cui percezione della diffusione risulta più contenuta nel Nordest, è una mano che strozza in guanti bianchi: dietro l’accettazione sociale del fenomeno, che porta a non denunciare o a considerare certe pratiche un male necessario, c’è paura delle conseguenze ma anche sfiducia nelle istituzioni e timore che la mancanza di legalità sia diffusa, come viene evidenziato in “Passaggio a Nordest”, il quaderno preparato da Libera in preparazione alla XXIV Giornata della Memoria e dell’Impegno in programma a Padova il prossimo 21 marzo. La mafia segue il Pil, ha ricordato Giuseppe Governale, direttore della Direzione Investigativa Antimafia, e dove c’è possibilità di corrompere germina e crea strutture: non si estingue, ma evolve adattandosi ai territori. In quello triveneto dominano familismo amorale e prostituzione al denaro, per cui c’è poco da meravigliarsi se la prospettiva dei guadagni facili rende favorevole il terreno per i mafiosi. Che non sono più soltanto uomini dotati di coppola e lupara. Sono quelli che scelgono la neutralità, che non si schierano, che non rispettano la Costituzione, che barattano la vita con il denaro, i contatti con le relazioni, che sono incuranti del bene comune e non pensano di dover fare la propria parte, che sono indifferenti all’ingiustizia e ai crimini ambientali. Quelli che apparentemente non fanno del male a nessuno, se non fosse che silenzio e equidistanza sono fattori di pericolosa complicità. Fattori che si ritrovano anche nel modo di fare informazione: i giornalisti hanno una precisa responsabilità nella percezione che la gente ha delle mafie e nell’impegno che decide di investirvi. Per quasi la metà delle persone intervistate nel Nordest (47,3%) — si legge in “Passaggio a Nordest” — la presenza della mafia nella propria zona è marginale, mentre in un caso su cinque è considerata preoccupante ma non socialmente pericolosa; solo il 17,5% del campione ritiene la presenza locale della mafia sia preoccupante che pericolosa.
Evidentemente finora è mancato il racconto di ciò che accadeva in questi territori — fallimenti, suicidi, crisi creditizia, ricorso a fonti di liquidità illecite — e di cosa lo aveva originato: c’è bisogno di una nuova narrazione che sia capace di rendere visibile ciò che sembra invisibile (perché senza sangue e senza lutto la mafia non esiste). Un impegno che tutta la categoria deve assumersi, fa parte della sua funzione etica. Come si dice nello spot del Washington Post, quello pubblicato in occasione del Super Bowl, «la democrazia muore nell’oscurità», mentre «la conoscenza ci dà potere. Sapere ci aiuta a decidere. Conoscere ci libera». Ed è proprio dalla conoscenza che si può e si deve ripartire, ha detto don Ciotti concludendo i lavori di Contromafiecorruzione, un appuntamento che ha interpellato la città (il quotidiano locale “Il Piccolo” è uscito con uno speciale e una sovracopertina dedicata) ha coinvolto oltre cinquecento persone in due plenarie e in una giornata di lavori di gruppo, attraverso il quale Libera ha fortemente voluto focalizzare l’attenzione e accendere i riflettori su tre regioni — il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige — generalmente considerate dall’opinione pubblica immuni da infiltrazioni mafiose ma in realtà sempre più attrattive, anche secondo soggetti istituzionali come la Commissione parlamentare Antimafia, per diventare sede di affari illegali e lavatrice di soldi sporchi. Dalla conoscenza, che ti consente di guardare le cose in faccia evitando perniciose illusioni e per costruire la quale il contributo dell’informazione è fondamentale, e dalle relazioni, perché l’essere umano non può vivere senza relazioni: ha bisogno di incontrarsi, di guardarsi in faccia, di riconoscersi, di parlarsi. Perché sempre e comunque è solo il “noi” che vince.
*portavoce presidio Articolo 21 Friuli Venezia Giulia