Sulle colonne di Repubblica, Concita De Gregorio ha raccontato la sua storia di ex direttore de L’Unità costretta a rispondere, in proprio, delle pretese risarcitorie milionarie di quanti si sono sentiti lesi dalle inchieste e dai corsivi pubblicati, fra il 2008 ed il 2011, sul giornale fondato da Antonio Gramsci. Conosco bene questa vicenda. E conosco altrettanto bene la dignità e la sobrietà, persino eccessiva, con cui la De Gregorio ha sempre evitato, sin qui, di parlare pubblicamente delle devastanti conseguenze che discendono da un principio arcaico, tuttora vigente nel nostro ordinamento: quello della “responsabilità personale oggettiva” del direttore di una testata per tutto ciò che viene scritto sul “suo” quotidiano.
Una questione irrisolta che ha implicazioni immediate sull’esercizio del diritto/dovere alla libera informazione e che, indubbiamente, finisce col gravare su ogni lettore, su ogni cittadino, su ognuno di noi. Il giurista sa che mai come oggi, in un tempo in cui ogni quotidiano pubblica su carta ed on line centinaia di pagine al giorno, questo obsoleto performativo costituisce null’altro che una “finzione giuridica” (è evidente che un direttore, anche volendo, non ha la possibilità materiale di verificare personalmente e nel dettaglio le fonti ed i contenuti sostanziali di ogni singolo articolo che appare sulla “sua” testata). L’art. 57 c.p. e gli artt. 2043 ss. c.c. rimangono così l’implacabile grimaldello attraverso il quale si riesce a condizionare la libertà di stampa nel nostro Paese: se non vogliono esporsi al rischio di risarcimenti esorbitanti, i direttori sanno già che devono essere i primi a piegarsi dinanzi a questo «invisibile nemico della verità»; i primi ad oscurare le notizie scomode; i primi a mettere la museruola a quei “cani da guardia della democrazia” che dovrebbero essere – secondo l’efficace definizione del compianto avvocato Oreste Flamminii Minuto – i giornalisti.
Santo Della Volpe ed Alberto Spampinato, con tutto il gruppo generosissimo di Ossigeno, hanno provato ad arginare da subito questa deriva, ponendosi e ponendo noi legali al fianco della redazione de L’Unità, abbandonata al suo destino dall’editore e dai partiti della sinistra italiana che pure hanno trovato, in quella testata, a partire dal 12 febbraio del 1924, la loro voce più autorevole e credibile. Per un cinico paradosso, è successo che gli effetti del fallimento dell’editore, di un pezzo di storia del Partito Democratico ed anche – sia detto senza infingimenti – degli sforzi di noi avvocati, si sono riversati tutti interi sulle spalle del solo direttore della “vecchia” Unità; testata scomparsa anch’essa, nell’indifferenza diffusa, sotto tutte queste macerie. Trascorremmo lunghe ore con Santo Della Volpe a riflettere su questa assurdità. Ricordo nitidamente i lineamenti del suo volto, logorato da questo annoso problema che sentiva profondamente dentro di sé, in quanto presidente della FNSI, in quanto lettore, in quanto tenace sostenitore dell’art. 21 della Costituzione. In quel frangente, la sua nota appartenenza ad una visione di sinistra ebbe una incidenza del tutto insignificante. Quella sua e nostra battaglia corrispondeva ad un monito di libertà che andava oltre le appartenenze ideologiche e che riguardava, indiscriminatamente, ogni ambito del giornalismo italiano.
Per una singolare coincidenza, proprio nei mesi in cui affrontavamo quelle tormentate discussioni, ho avuto modo di cogliere quel suo stesso identico impegno, nella strenua difesa di Alessandro Sallusti, sottoposto a detenzione domiciliare per non aver impedito la pubblicazione di un articolo sul giornale (Libero) di cui era “direttore responsabile”. Al “caso Sallusti”, Santo Della Volpe dedicò un coraggioso articolo, intitolato per l’appunto «diffamazione e diffamati», pubblicato su questo stesso sito nel settembre del 2012. Va detto, ad onor del vero, che sia le vicende di Concita De Gregorio che di Alessandro Sallusti e di chi, come loro, è costretto a far fronte all’esecuzione di sentenze penali o civili, devono essere rigorosamente distinte dalla pur controversa tematica delle azioni civili o delle querele “temerarie”. Il profondo rispetto che va riservato alle pronunce dell’autorità giudiziaria deve indurre ad escludere la “temerarietà” di una iniziativa legale che ha trovato, in qualche modo, l’avallo di un giudice. E questa doverosa valutazione non può certo cambiare, per eguale onestà intellettuale, nemmeno nei casi in cui la decisione giudiziaria sia stata sollecitata dai potenti e dai potentati meno presentabili. La colpa dell’altrui errore giornalistico, rilevato (a torto od a ragione) da un giudice, non può essere ascritta, tuttavia, ad una persona fisica (il direttore responsabile del giornale) da cui non si può pretendere, razionalmente, una condotta diversa dalla sua ordinaria e limitata funzione di coordinamento redazionale. Ad impossibilia nemo tenetur.
L’unica soluzione realistica per far fronte a questa macroscopica ingiustizia, va dunque rinvenuta in una nuova legge volta a sopperire alle conseguenze del fallimento degli editori; per supportare, anche sotto questo fondamentale profilo, la posizione dei giornalisti e dei direttori delle testate in crisi. Santo Della Volpe condivise in pieno questa imprescindibile necessità ma, nella sua dirittura morale, non mancò di farmi notare come, in quel particolare momento storico (con il Partito Democratico al governo) una simile proposta sarebbe stata percepita e rappresentata dalle opposizioni come una “legge ad personam”, con una prevedibile mistificazione del suo reale intento di salvaguardia della generale libertà di stampa. D’altro canto, già all’epoca, alle forze di governo risultava più facile farsi carico, senza alcun imbarazzo, dei debiti accumulati dai banchieri più spregiudicati che andare incontro alle ragioni dei giornalisti schiacciati dalle insolvenze degli editori. Da allora molto è cambiato nel Paese.
Il problema della scure che grava sui “direttori senza più editore” è rimasto, però, assolutamente immutato. Le nuove elite a cui sono ora affidate le nostre prerogative costituzionali hanno proclamato, in più occasioni, di voler preservare ogni vettore dell’informazione individuale e collettiva. I giornali rimangono la preghiera laica da depositare, ogni giorno, sull’altare di questi valori, se vi si crede veramente. Bisogna allora riprendere il confronto parlamentare per una riforma integrale della normativa in materia di diffamazione a mezzo stampa e per l’immediata creazione di un “fondo di garanzia”, destinato a manlevare i giornalisti-vittime collaterali del fallimento dei loro editori. Nessun “conflitto di interesse”, reale o apparente, si frappone oggi ad una misura di questo tipo. Ai giornali spetta, quantomeno, la medesima attenzione che le forze parlamentari e di governo, del presente come del passato, hanno mostrato di riservare al settore bancario.