Sapevamo che il regista, Matteo Rovere, aveva voluto girare un film iperrealista con ricostruzioni accurate dal punto di vista storico, antropologico e linguistico. Idioma pre-latino, innervato da basi indoeuropee (validate da consulenze accademiche), abitazioni di canna e paglia con utensili e armi d’epoca, villaggi di poche decine di abitanti, ferini e primitivi. Cosa stavamo vedendo allora? Non certo Il gladiatore, neppure un film di violenza estetizzante alla Valhalla Rising, né un Apocalypto italico, né un The Eagle per i paesaggi straordinari e lividi. Niente di tutto questo. Il primo re è altro.
La vicenda: due gemelli, Romolo (l’efficace Alessio Lapice) e Remo (un possente Alessandro Borghi), sono travolti dal fiume in piena mentre pascolano il loro gregge, ma si salvano aiutandosi l’un l’altro. Vengono però catturati dai guerrieri di Alba. Il loro destino è quello di essere sacrificati alla divinità insieme ad altri prigionieri. Remo riesce a liberarsi e a scatenare una rivolta. Nella fuga collettiva si porta dietro la sacerdotessa (la penetrante Tania Garribba) della potente città latina, insieme a Romolo, ferito gravemente. Sfidando la superstizione, i fuggiaschi avanzano nel bosco, mentre Remo è riconosciuto loro re dopo aver superato dure prove. Ha combattuto contro le profezie, ha lottato contro uomini e dei per aiutare il fratello, ora curato dalla vestale. “Stiamo salvando l’assassino” dice lei prefigurandogli il destino. Che sarà di morte, ucciso dallo stesso Romolo per difendere le donne e i giovani Velienses affidatisi a lui.
Detto così potrebbe sembrare un peplum rivisto con gli occhi della postmodernità, in realtà è un film suggestivo, sorprendente per i canoni attuali del nostro cinema (come lo fu Jeeg Robot). Il primo re è film avvincente per merito della bravura di Matteo Rovere, dell’ammaliante fotografia di Daniele Ciprì, e per l’intelligente sceneggiatura di Filippo Gravino e Francesca Manieri, che riscrivono insieme al regista il mito, facendolo ridiventare quello che è: Storia. Epico nonostante la decostruzione del racconto mitologico che diviene tragedia (più shakespeariana che greca), trattando temi come l’amore tra fratelli, il sacro e il senso dello Stato e che pone interrogativi etici: può fondarsi una nazione senza religione? Figura cardine è la vestale, colei che custodisce il fuoco sacro degli dei. Attorno a lei ruotano i destini dei due fratelli: Remo, capo militare, problematico e autoritario, e Romolo, religioso e rispettoso della tradizione. Egli è colui che rispetta i morti e gli dei, è il predestinato. Remo non può esserlo. Pecca di hybris, sfida gli dei. “Solo un dio può avermi“, gli dice la vestale quando lui le si avvicina con desiderio. Non gli resta che allontanarsi, chiara allusione alla sua futura morte. Romolo farà Roma.
Abbiamo capito che Il primo re ci aveva convinto e conquistato definitivamente nel momento in cui Remo arringava i suoi compagni per una missione ben più grande che quella di salvarsi dai guerrieri di Alba. L’abbiamo capito quando in un istante sono riaffiorate alla mente le grandi pagine della letteratura mondiale di ogni tempo, e non solo la tragedia greca o il poema latino, ma Dante, Shakespeare, Tolstoj…Non sappiamo se piacerà ai più giovani. Nonostante le scene di azione, i combattimenti violenti e sanguinosi, il film appare quasi teatrale, oserei dire da tragedia che rispetta le unità aristoteliche di azione (la lotta per la sopravvivenza), tempo (non scorre) e luogo (Tevere), insomma: non di facile godimento, piuttosto di prolungata meditazione, grazie ai dialoghi intensi e, spesso, commoventi. Un film italiano inatteso, per questo più bello, forse sulla stessa scia di un giovanissimo Hegel che, in uno degli “Scritti teologici giovanili”, indicava in modo chiaro che il fondamento della rigenerazione politica passava dalla rigenerazione morale e religiosa dell’uomo.