“Abbiamo fatto l’Italia, adesso dobbiamo fare gli italiani” è il celebre aforisma attribuito al conte Massimo D’Azeglio all’indomani della formazione del Regno d’Italia. Sono passati oltre centocinquant’anni e non c’è dubbio che la Storia ha portato a termine la missione di fare gli italiani. Nel bene o nel male, attraverso le vicende del Regno d’Italia, i drammi della due guerre, il riscatto della Resistenza e la nascita della Repubblica, è innegabile che le varie comunità che componevano l’Italia dell’800 si sono saldate e si sono riconosciute in una identità comune, gli italiani appunto. Fatti gli italiani, adesso la politica si è assunta la missione di disfare l’Italia.
Dopo lunghe trattative, tenute rigorosamente riservate, alla fine sono emerse e sono state portate in Consiglio dei Ministri le bozze di accordo per la concessione della c.d. “autonomia differenziata” sulla base delle richieste del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna. Se queste proposte venissero approvate, verrebbero spezzettati i caposaldi, le travi sulle quali si regge l’unità della Repubblica, a cominciare dalla funzione pubblica dell’istruzione e dal servizio sanitario nazionale. Trasferire alle Regioni quasi tutte le competenze dello Stato comporta un trasferimento di risorse che, nelle intenzioni del Veneto e della Lombardia, dovrebbe essere parametrato al gettito fiscale dei territori. In pratica i diritti (quanta e quale istruzione, quanta e quale protezione civile, quanta e quale tutela della salute) saranno come beni di cui le Regioni potranno disporre a seconda del reddito dei loro residenti. Quindi, per averne tanti e di qualità, non basta essere cittadini italiani, ma cittadini italiani che abitano in una regione ricca, ciò in aperta violazione dei principi di uguaglianza scolpiti nella Costituzione. E’ l’antico progetto secessionista della Lega (la separazione delle Regioni ricche da quelle povere) che si realizza utilizzando uno strumento servito su un piatto d’argento da una improvvida riforma costituzionale del 2001. Per fortuna sta emergendo la consapevolezza della gravità della posta in gioco. Ieri è stato pubblicato un appello di intellettuali per la costituzione di un Comitato in difesa dell’unità della Repubblica (consultabile sul sito de “Il Manifesto”). Osservano i promotori che: “Di fronte al rischio di una “secessione dei ricchi” è necessario un coordinamento delle forze che si oppongono a questo processo per dare vita a una mobilitazione efficace per bloccarla. (…) Riteniamo necessario che non vi debbano essere ulteriori trasferimenti di poteri e risorse alle regioni su base bilaterale e che i trasferimenti sulle materie a loro assegnate debbano essere ancorati esclusivamente a oggettivi fabbisogni dei territori, escludendo ogni riferimento a indicatori di ricchezza. (..) In questo quadro vi sarebbe una ricaduta negativa prioritariamente sulle regioni del Sud e sugli abitanti non ricchi di tutt’ Italia con la progressiva privatizzazione dei servizi. (..) Il Mezzogiorno viene condannato a essere privo di pari riconoscimento della cittadinanza, con ancor maggiore desertificazione degli investimenti e sempre più debole economia. L’autonomia regionale differenziata negherebbe così la solidarietà nazionale, la coesione e i diritti uguali per tutte/i che garantiscono l’unità giuridica ed economica del paese.”
L’unità della Repubblica, che si fonda sull’eguaglianza e sull’universalità dei diritti, è la garanzia del nostro futuro. Rompere l’unità nazionale, all’insegna di grandi egoismi localistici, aprirebbe la strada ad un conflitto permanente fra nord e sud, fra regioni ricche e regioni povere che ci farebbe precipitare in un nuovo medioevo.
Da fratelli d’Italia a brandelli d’Italia: non è questo il futuro che abbiamo sognato.