Era il 19 marzo 1994 e don Peppe Diana, parroco della parrocchia di San Nicola di Bari a Casal Di Principe, si accingeva a celebrare la Messa, quando il camorrista Giuseppe Quadrano gli sparò cinque colpi in faccia uccidendolo in chiesa davanti ai suoi fedeli senza alcuna pietà. La grandissima colpa di quel sacerdote di strada era quella di non essersi arreso alla camorra. Al silenzio aveva preferito la voce alta di chi crede ancora nell’onestà e battagliava giorno dopo giorno in quel territorio così difficile. Testimone oculare di quello spietato omicidio fu Augusto Di Meo, fotografo e amico del sacerdote, che decise di denunciare l’accaduto, sfidando l’omertà e la paura. Quello fu l’inizio di una nuova vita per lui, che fu costretto ad allontanarsi dalla sua terra insieme alla famiglia, perché vittima di un sistema giudiziario sbagliato. Augusto Di Meo, infatti, non entrerà mai in un programma di protezione per i testimoni di giustizia, poiché la legge che disciplina la materia era del 2001 e non era retroattiva. I testimoni, forniscono la loro testimonianza sull’accadimento di un fatto delittuoso e per tale ragione hanno una protezione da parte di organismi dello Stato appositamente creati. Le dichiarazioni dei testimoni per essere credibili devono essere oggettivamente riscontrate dagli investigatori al fine di costatarne la loro veridicità. Appurato che la collaborazione o la testimonianza sono veritiere, i testimoni di giustizia sono inseriti in un apposito programma di protezione.
La Corte di Cassazione Sezione Prima Penale scrive nero su bianco nella sentenza n. 15498/2004 che la realtà processuale ha dimostrato che Di Meo, presente al delitto di don Peppe Diana, ha riconosciuto il Quadrano (l’assassino) in fotografia, in televisione, quando lo aveva visto scendere dall’aereo dopo la sua latitanza e lo ha riconosciuto anche in carcere. Ha sempre confermato tali versioni fornendo particolari sul killer di difficile confondibilità con le caratteristiche fisiche di altri autori. Decidendo di testimoniare e di non cedere alla paura Di Meo offre un contributo determinante nella lotta al crimine organizzato dei Casalesi ed espone se stesso e la sua famiglia a rischi nella sicurezza personale ed a disagi profondi che segnano l’esistenza. Diventa un testimone di legalità ed un esempio contro l’efficacia delle intimidazioni e dell’omertà. Io penso che lo Stato deve saper cogliere queste risorse umane, perché la libertà si conquista restando in trincea. Se mi mettessi nei panni di chi scelse di sfidare il clan dei Casalesi, mi rendo conto di quanto difficile sia stata la sfida. C’era il rischio di essere ammazzati, isolati da una comunità, le persone che prima salutavano non gli rivolgono più lo sguardo e non degnano di una parola. In queste condizioni è quasi impossibile immaginare un reinserimento a pieno titolo. Come fa ad esempio un fotografo a lavorare in un ambiente simile? La sua è stata una sfida anche culturale, da vincere a tutti costi, perché le mafie si sconfiggono nei tribunali ma anche giorno dopo giorno, grazie al coraggio di chi, essendone stato testimone, ha avuto la forza e il coraggio di denunciare. Eppure se si volesse un meccanismo per riconoscergli lo status di testimone di giustizia ci sarebbe. Come regola generale le norme giuridiche non hanno effetto retroattivo: esse, cioè, possono regolare solo casi sorti successivamente all’entrata in vigore della norma stessa e non quelli, invece, già realizzatisi. Infatti le disposizioni sulla legge in generale stabiliscono che “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.
Questo divieto, però, non è assoluto e incontra alcune eccezioni. Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che una norma possa avere valore retroattivo se ciò risponde a un criterio di ragionevolezza e di maggiore giustizia. Per esempio: sarebbe ragionevole e giusto riconoscere un valore retroattivo a una norma che riconosce tardivamente un certo diritto a una certa categoria di persone. E’ il caso di Augusto Di Meo. In pratica, le norme che impedirebbero ad Augusto un riconoscimento dovutogli possono avere efficacia retroattiva poiché una simile operazione giuridica corrisponderebbe senza dubbio alcuno a criteri di ragionevolezza e di maggiore giustizia. Peraltro un simile provvedimento non contrasterebbe neanche con i principi generali dell’ordinamento giuridico e sarebbe conforme al principio di legalità; al principio di proporzionalità; al bilanciamento finale tra i principi di buon andamento ed efficacia ed i principi di certezza (intesa come ragionevole prevedibilità) del diritto e di tutela del legittimo diritto del soggetto. La sequenza test di legalità; test di proporzionalità; test correlato al bilanciamento tra i principi di buon andamento ed efficacia ed i principi di certezza-prevedibilità e legittimo diritto del soggetto, potrebbe essere in grado di determinare all’interno di un quadro concettuale unitario, coerente e flessibile il problema della retroattività del provvedimento legislativo, evitando gli inconvenienti determinati dall’approccio tradizionale che, finora, ha preferito trovare soluzioni aprioristiche differenziandole rigidamente “per classi” astratte di atti invece che calarne nel concreto secondo i principi di giustizia e di ragionevolezza. Se si vuole si può!
*Vincenzo Musacchio, giurista e direttore della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise