«Essere un popolo libero: questa aspirazione deve risuonare nei nostri cuori fintanto che non abbiamo perduto la nostra umanità. Siamo costretti ora a dominare un popolo che non vuole essere dominato da noi… Più breve sarà l’occupazione, meglio per noi. Perché anche un’occupazione imposta dalla necessità è distruttiva. Perché anche un’occupazione illuminata, tollerante e umana è pur sempre un’occupazione. Io ho timore circa i semi che pianteremo nei cuori degli occupati. Ma ho ancora più timori circa i semi che pianteremo nei cuori degli occupanti. I primi segni sono riconoscibili già ora sui margini della società».
Così scrisse Amos Oz su Davar, quotidiano israeliano di allora affiliato alla Histadrut, appena due mesi dopo la guerra arbo-israeliana del 1967, nella quale lui stesso aveva combattuto.
Anni dopo alcuni suoi articoli usciti sempre su Davar, raccolti in edizione inglese nel 1983, poi in italiano (Marietti, 1992) con il titolo In terra d’Israele ci offrono un messaggio profondo e profetico. Un messaggio che fluisce senza forzature retoriche né cerebralismi, senza pretesa di fare del racconto un trattato; un messaggio che affiora qua e là mentre Amos percorre luoghi e cose, ritrae persone in un viaggio fisico e spirituale attraverso Israele e il popolo che la abita.
Una lettura soggettiva e selettiva quella di Amos, come osserva lui stesso nell’ introduzione. Una rilettura soggettiva, la nostra oggi dopo oltre tre decenni. Un incontro, in particolare, profetico nei suoi insegnamenti, quello ad Ofra – un insediamento in Cisgiordania oggi molto grosso – con esponenti di Gush Emunim, il movimento annessionista ispiratore di molti degli insediamenti ebraici nei territori, quella Giudea e Samaria che nei dettami ideologici del sionismo religioso fondati sull’idea della sacralità e integrità della Terra d’Israele dovrà restare per sempre parte d’Israele e gli abitanti palestinesi al più saranno tollerati come soggetti senza diritti.
«Lo stato nazione – afferma Oz – è mezzo, non fine: la storia della Diaspora è storia di un’utopia, quella di fondare una civiltà senza stato in un mondo dove la forma politica dello stato con i suoi strumenti (il potere miliare, la guerra) è stata ed è predominante. Il popolo ebraico ha già inscenato questo spettacolo, da solo e a lungo. E il pubblico – gli spettatori del mondo intero – lo ha talvolta applaudito, altre volte gli ha lanciato pietre e qualche volta ha ammazzato l’attore. Ma nessuno si è azzardato a imitare questo modello che gli ebrei sono stati costretti a mantenere in vita per duemila anni, un modello di nazione senza gli strumenti del potere». Con il genocidio nazista e poi con la nascita d’Israele il popolo ebraico ha introiettato di necessità le stesse regole del gioco, ivi inclusa la guerra come strumento di autodifesa se necessaria alla sopravvivenza. Ma con il 1967, nell’euforia di una vittoria inattesa e nell’isteria nazionalista che la vittoria ha prodotto , lo stato e la forza delle armi si sono tramutati da mezzo in fine, in oggetto di culto idolatrico.
E si è affermata una concezione integralista e monomane dell’ebraismo, che riduce l’ebraismo a religione, la religione a culto e il culto a un solo oggetto: l’intera Terra di Israele.
Israele è percorsa da allora da un senso di autismo morale: nell’estasi della vittoria gli ebrei d’Israele hanno perso il senso della realtà negando agli arabi i diritti rivendicati per se stessi – quelli primari dell’autodeterminazione. La visione del mondo di Gush Emunim è quella di un conflitto irriducibile fra il popolo ebraico e un mondo ad esso estraneo e nemico – quel mondo che è stato cruciale per la fondazione dello stato nel 1947-48 e che tuttora lo è per la sua esistenza. Un’ideologia fanatizzata che nega l’incontro storico fra ebraismo e umanesimo occidentale – l’idea della santità della vita, della libertà individuale e della giustizia – ributtando la cultura ebraica indietro di secoli al tempo di Giosuè, al libro dei Giudici e a un tribalismo primitivo.
In Giuda, ultimo tra i romanzi di Oz (in italiano, Feltrinelli, 2014), si rincorrono e intersecano due dimensioni, quella teologica e quella storico-politica. Ad ambedue è sotteso un concetto sovversivo, quello di tradimento e di traditore. Il traditore per Oz merita elogio perché coltiva l’utopia, ricerca il cambiamento, agisce come un rivoluzionario o almeno come colui che precorre profeticamente i tempi. Il tradimento è qui una categoria culturale o mentale e i traditori non sono, come l’opinione corrente… Continua su confronti