Care colleghe, cari colleghi,
grazie per essere qui. Grazie alle colleghe e ai colleghi del Sindacato dei giornalisti del Trentino-Alto Adige, che, con il sostegno delle istituzioni del territorio, a cominciare dalla Provincia autonoma di Trento, si sono fatti carico di organizzare il XXVIII Congresso nazionale della Stampa italiana, proponendo che fosse dedicato alla memoria di Antonio Megalizzi. Antonio Megalizzi non era soltanto figlio di questa terra, ma era un collega precario, un giovane innamorato della vita e della professione, rimasto vittima della follia di un suo coetaneo accecato dall’odio e dal rancore. Antonio aveva 29 anni e, a dispetto di una corrente di pensiero che prova a far breccia nell’opinione pubblica esaltando i muri e il filo spinato, nella sua breve esperienza professionale ha sempre cercato di raccontare l’Europa, quella speranza di futuro per molti giovani della sua generazione, quell’idea che ha preso corpo dopo gli orrori delle guerre grazie allo sguardo lungimirante di Altiero Spinelli, Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Robert Schumann, Konrad Adenauer e Paul-Henri Spaak. Una costruzione, quella europea, tuttora incompiuta, imperfetta e non priva di limiti, ma che ha permesso a noi, a differenza di quanto era accaduto ai nostri nonni e ai nostri genitori, di nascere, crescere, studiare e lavorare in un contesto di pace, libertà e benessere.
Il nostro Congresso si celebra alla fine di quattro anni difficili, se non drammatici, sia sul piano della tenuta del mercato del lavoro sia sul versante della tutela delle libertà e dei diritti. Sono stati quattro anni intensi per il gruppo dirigente della Fnsi, che desidero qui ringraziare insieme con l’intera struttura, guidata dal direttore Giancarlo Tartaglia. Un grazie alle Associazioni regionali di Stampa e a coloro che hanno accolto il nostro invito.
Queste assise si tengono in una fase storica di trasformazioni in cui il modello di democrazia liberale, il suo sistema di pesi e contrappesi e la funzione dell’informazione quale fondamento delle istituzioni democratiche sono quotidianamente sotto attacco. È un processo in atto da tempo in tutto il mondo, che la combinazione di tre fattori – finanza, tecnologia e globalizzazione – ha favorito e
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accelerato, distruggendo posti di lavoro, allargando le aree della povertà e del disagio sociale, cambiando radicalmente il profilo delle società occidentali e mettendo in discussione libertà, diritti fondamentali e meccanismi di funzionamento delle democrazie affermatisi nel corso del XX secolo. La disintermediazione, l’attacco ai corpi intermedi – siano essi partiti, sindacati, gruppi organizzati, mezzi di informazione – alimentano un crescente e diffuso sentimento di avversione nei confronti della stampa e dei giornalisti. Se è vero che storicamente il potere non ha mai amato i giornalisti, oggi, a differenza che nel passato, le tecnologie rendono più facile mettere in discussione il lavoro e la funzione del giornalista. La stampa è sotto attacco perché è l’ostacolo all’affermazione di un modello al quale il potere ambisce da sempre. È il modello del balcone, oggi diventato balcone telematico, dal quale il capo parla alla folla e impone la sua visione del mondo in 280 caratteri. In un’epoca in cui la narrazione conta più della realtà e il virale ha più valore del reale, la stampa, pur non esente da limiti e da errori, con il suo essere il principale dei contro poteri, con la sua funzione di analisi e di critica, è il vero nemico da combattere. Se il Washington Post investe 5,25 milioni di dollari in uno spot di 60 secondi trasmesso durante il Superbowl, l’evento televisivo più seguito degli Stati Uniti d’America, per esaltare il valore essenziale del giornalismo per la qualità della democrazia e ricordare che la democrazia muore nell’oscurità, il rischio che stiamo correndo è elevatissimo e non va sottovalutato.
Il modello Trump – un modello che nasce già prima del suo arrivo alla Casa Bianca – trova i propri emuli in varie parti del mondo, Italia compresa. Gli attacchi, gli insulti, le aggressioni ai giornalisti, la continua messa in discussione del ruolo della stampa, con i giornalisti accusati di essere una casta nemica del popolo, i tentativi di intimidire gli organi di informazione, che negli ultimi mesi hanno raggiunto livelli preoccupanti, il taglio dei finanziamenti ai giornali espressioni di determinate aree culturali, di minoranze linguistiche, di piccole comunità territoriali, altro non sono che un attacco all’articolo 21 della Costituzione. Quell’articolo è un pilastro fondamentale della Costituzione repubblicana e – in un clima di forte ostilità nei confronti dell’informazione – Fieg e Fnsi l’hanno ricordato pubblicandone il contenuto in pagine condivise su numerosi quotidiani.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al quale vanno il nostro deferente saluto e il nostro grazie, ha richiamato più volte negli ultimi tempi l’attenzione sui rischi che la libertà di stampa e le istituzioni democratiche corrono nel nostro Paese. L’attacco ai giornali e ai giornalisti è l’attacco al diritto dei cittadini ad essere informati, è l’attacco al confronto, al dibattito, alla circolazione delle idee, in una parola a quel pluralismo che – ce lo ha ricordato proprio il presidente Mattarella – è l’essenza stessa della democrazia. Cittadini meno informati o disinformati sono cittadini più deboli, cittadini incapaci di partecipare alla vita civile e sociale del Paese, quindi cittadini meno liberi. Libertà è partecipazione, cantava Giorgio Gaber. Partecipare significa esercitare pienamente e consapevolmente i propri diritti di
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cittadinanza, a cominciare dall’espressione più alta della sovranità popolare: il diritto di voto.
L’attacco all’informazione nasconde il tentativo di indebolire la democrazia liberale. Quando si colpisce una libertà, si colpiscono tutte. Per dirla con le parole di Filippo Turati alla Camera dei deputati nel luglio 1923, “le libertà sono tutte solidali: non se ne offende una senza offenderle tutte”. Gli insulti e le accuse ai giornalisti fanno parte di una strategia più ampia di attacco alla prima parte della Costituzione, ai valori fondamentali della nostra convivenza, che passa attraverso l’attacco più generale alle competenze e alle élite che sono la spina dorsale della democrazia rappresentativa, ma il cui ruolo e la cui funzione vengono messi in discussione dall’aumento delle diseguaglianze perché diventano il bersaglio della rabbia degli esclusi, dei nuovi poveri, di coloro pagano sulla propria pelle il blocco del cosiddetto ascensore sociale. Nel mirino non c’è soltanto l’articolo 21 della Costituzione, ma anche l’articolo 2, che valorizza il ruolo delle formazioni sociali, di quei corpi intermedi, luoghi di confronto, ascolto, dibattito e riflessione che si cerca marginalizzare; l’articolo 3, che esalta il valore dell’eguaglianza fra i cittadini in quanto persone, anzi esseri umani, valore calpestato da rigurgiti di razzismo e da sempre più diffusi fenomeni di odio e di intolleranza verso le diversità, le minoranze, gli ultimi.
Non si tratta di fare allarmismo: basta la lettura dei giornali. Se il signor Steve Bannon, già stratega della campagna elettorale di Donald Trump, organizza seminari e convegni nel nostro Paese e annuncia che l’Italia è il centro dell’universo politico e diventerà il laboratorio europeo per l’elaborazione di una nuova forma di democrazia non si può non essere preoccupati. Se fra le forze di governo c’è chi teorizza il superamento del Parlamento, la guardia va tenuta alta. Lo ha spiegato recentemente Massimo Cacciari: “Per costoro democrazia deve diventare l’universale chiacchierata in rete, organizzata, diretta e decisa nei suoi esiti dai padroni della stessa, senza partiti, senza corpi intermedi, senza sindacati che disturbino la linea diretta, in tempo reale e interattiva, come recita il loro verbo, fra il popolo e il capo, espressione della volontà generale”.
In questo scenario, il sindacato dei giornalisti non è rimasto e non resterà in silenzio. Ha ricostruito una visione di futuro e un terreno di azione comune ricostituendo il coordinamento degli enti della categoria con Ordine dei giornalisti, Inpgi, Casagit, Fondo di previdenza complementare, affidandone la guida a Giovanni Negri; ha costruito alleanze politiche, civili, sociali con associazioni e cittadini sui temi delle libertà e dei diritti, che hanno avuto come punto di riferimento non soltanto l’articolo 21, ma anche i principi e i valori della Costituzione repubblicana, la nostra Costituzione antifascista e antirazzista. La difesa della libertà di espressione, del diritto dei giornalisti di informare e dei cittadini ad essere informati è la condizione essenziale per mantenere alta la qualità della democrazia. Mario Borsa, che fu fiero oppositore delle leggi fasciste sulla stampa e direttore del Corriere della Sera nel periodo fra il 25 aprile 1945 e l’agosto del 1946 lo spiegò con parole che devono far
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riflettere ancora oggi perché sono più che mai attuali: “La libertà di stampa è tutto: è inutile parlare di libertà di coscienza, di libertà di riunione, di guarentigie costituzionali, di istituzioni parlamentari, di indipendenza della magistratura, di purezza dell’amministrazione pubblica, se non si mette a base di tutto ciò la libertà di stampa, cioè la libertà di pensare, di scrivere, di controllare, di criticare, di correggere, di consigliare e, occorrendo, di denunciare”.
Questa libertà oggi è sotto attacco in tutto il mondo e in Italia forse più che in altri Paesi europei da parte di un potere che non ama i contrappesi della democrazia perché vuole farsi assoluto, un potere che vuole i cittadini sempre più sudditi, quindi facilmente controllabili e manipolabili attraverso algoritmi e piattaforme digitali. I giornalisti danno fastidio perché fanno domande, perché stimolano il pensiero critico, perché mettono in discussione le verità di comodo, smascherano le fake news, obbligano ad andare oltre la narrazione e a fare i conti con la realtà e con la verità. Essere giornalista oggi significa anche e sempre più spesso mettere a repentaglio la propria incolumità e la propria vita. Ce lo ha ricordato la rivista americana Time, che a dicembre scorso ha scelto come persona dell’anno i giornalisti “guardiani della verità”, colleghi che hanno il coraggio di sfidare i regimi, dall’Arabia Saudita alle Filippine, alla Turchia, per citarne alcuni. I delitti efferati di Jamal Kashoggi, Daphne Caruana Galizia, Jan Kuciak, i cronisti in carcere nella Turchia di Erdogan, le leggi liberticide di Orban, la repressione contro i cronisti che stanno raccontando la crisi del Venezuela, e, nel nostro Paese, le minacce delle mafie e il riemergere di uno squadrismo di matrice neofascista e neonazista rappresentano le molteplici sfaccettature di una società globale stretta fra chi considera l’informazione sostanzialmente inutile e chi vede in essa un nemico da combattere. La tutela dei colleghi minacciati e le battaglie perché i delitti e i colpevoli non restino impuniti hanno caratterizzato e continueranno a caratterizzare l’azione della Fnsi in Italia e in Europa, dove è protagonista di iniziative comuni con i colleghi dei sindacati degli altri Paesi europei.
Oltre che un problema politico, esiste però un problema professionale. Occorre riaffermare il ruolo e la funzione del giornalista. L’iperconnettività rafforza l’idea che per informarsi non serva alcuna fatica, che la rete sia esaustiva e che, anzi, grazie ad essa sia possibile fare a meno non soltanto dell’informazione, ma anche di tante altre competenze. Si tratta di un processo pericoloso, alimentato dall’uso distorto degli algoritmi, che servono a creare comunità di persone che la pensano allo stesso modo, nutrendole spesso di informazioni false o alimentandone credenze, pregiudizi e paure. Quando queste convinzioni diventano vissuto quotidiano nasce quel senso comune che poi crea fenomeni di ignoranza generale. Quanto questo fenomeno sia pericoloso per la democrazia è sotto gli occhi di tutti. È in una fase come questa che l’informazione può riacquistare un ruolo, puntando sulla qualità. Tocca ai giornalisti, quindi all’informazione, far sì che nella società il buon senso torni a prevalere sul senso comune, come ha ricordato a luglio 2018 il presidente Sergio Mattarella nella Cerimonia del Ventaglio al Quirinale.
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Per capire che cosa questo significhi in termini pratici, è sufficiente richiamare qui le parole di Marshall McLuhan, quando sosteneva che nell’era dell’informazione istantanea il rumor diventa la cosa reale. Questo fenomeno è stato amplificato nell’era dei social, con notizie false che diventano vere. Oggi si assiste sempre più ad una sorta di cyber war, una guerra di dati che trova nella manipolazione in rete un terreno molto fertile, dovuto alla volatilità delle emozioni. Se questo fenomeno – avverte Derrick De Kerckhove, che di McLuhan ha raccolto l’eredità – restituisce slancio alla politica sono tanti i pericoli che minano la democrazia. Per questo – è il suo auspicio – la stampa deve presentarsi impeccabile ai suoi lettori, non giocando sullo stesso terreno del sensazionalismo.
Essere impeccabili significa rimettere al centro la qualità, la verità sostanziale dei fatti e la dignità delle persone. Insomma, le regole basilari della professione, le Carte deontologiche, di cui bisogna imporre e pretendere il rispetto, la ricerca della verità e la funzione pedagogica dell’informazione. Essere impeccabili significa mantenere la schiena dritta, restituire dignità e decoro alla professione. Questo vuol dire essere anche inflessibili con chi pensa di utilizzare i giornalisti come megafoni illudendosi di poter abolire le domande.
La cosiddetta post verità nasce dalla distruzione del principio di realtà, quando cioè la demagogia prevale sulla realtà. Il buon giornalismo può contribuire alla rinascita dell’opinione pubblica, non soltanto attraverso la reazione ai professionisti della demagogia, ma distinguendo i fatti per quelli che sono e non per quelli che sembrano e stanando chi pensa di manipolare la percezione della realtà attraverso gli algoritmi dell’odio, del rancore e della paura. Il messaggio di Papa Francesco per la 53esima Giornata delle Comunicazioni sociali, che si celebrerà a giugno, è un’esortazione che non si può ignorare. Ricominciamo a dare senso e significato alle parole. Le colleghe e i colleghi di Carta di Roma ce lo ricordano di continuo. La lettura del Manifesto di Assisi, quel decalogo nato da un momento di riflessione e di confronto con i frati del Sacro Convento, può aiutare tutti a riflettere sulla necessità di ritornare ad alimentare un confronto civile, anche acceso, ma che non sia una permanente chiamata alle armi. Il rispetto della verità e il governo del linguaggio sono un dovere fondamentale di chi fa informazione. Governare il linguaggio significa rispettare la verità dei fatti – la legge professionale, da questo punto di vista è ancora profondamente attuale – e non manipolarli in funzione delle necessità imposte dalla cosiddetta narrazione. È una strategia comunicativa che si alimenta di luoghi comuni e di notizie false, amplificandole, per affermare una visione del mondo che punta a escludere e non ad includere, a innalzare muri e non a costruire ponti. Il giornalista deve tornare ad essere riconoscibile per il suo ruolo. In tempi di crisi e di tagli, ma anche di “distanza digitale”, si è perso il rapporto con la comunità dei lettori e degli utenti.
Il punto di partenza deve essere sempre l’articolo 21 della Costituzione: esprimere liberamente il proprio pensiero non significa insultare, alimentare l’odio o istigare alla violenza.
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In una stagione come quella attuale, compito del sindacato deve essere quello di rimettere l’informazione al centro del nostro sistema democratico. I modelli di riferimento non possono essere né l’Ungheria, né la Polonia e neppure la Turchia. I nostri modelli sono nella nostra storia, nella memoria collettiva del Paese e della categoria. I nostri principi sono quelli della Costituzione ed è proprio in ragione di quei principi e di quei valori che abbiamo messo al primo posto la necessità di riformare profondamente le leggi di sistema. È stato uno dei primi atti – eravamo nel 2015 – compiuti con il precedente governo, dal quale sono arrivate poche risposte e non sempre soddisfacenti, e che abbiamo riproposto con l’attuale governo, dal quale sono arrivati e continuano ad arrivare segnali preoccupanti. La necessità di intervenire sulle leggi di sistema è imprescindibile perché è la condizione per affrontare le questioni inerenti alla qualità dell’informazione e alla qualità dei rapporti di lavoro, quindi il tema dei diritti dentro e fuori dalle redazioni. Le criticità del modello italiano sono da tempo note a tutti e sono state più volte segnalate anche dagli organismi internazionali. Ancora oggi scontiamo la mancanza di una adeguata normativa antitrust e di regole sui conflitti di interessi, l’assenza di norme sulla regolazione del mercato pubblicitario, dove esiste ancora un’evidente sproporzione fra televisione e carta stampata, il servizio pubblico radiotelevisivo controllato dai governi, il carcere per i giornalisti e le querele bavaglio. A questo potremmo aggiungere la necessità di intervenire sul mercato del lavoro e sulla legge istitutiva dell’Ordine, la numero 69 del 1963, soprattutto sotto il profilo dell’accesso alla professione e del rispetto delle regole deontologiche.
Le linee guida per la riforma approvate recentemente dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti rappresentano il primo passo di un percorso che, c’è da augurarselo, dovrà avere come sbocco finale le aule del Parlamento. Quelle linee guida esprimono bene la volontà di cambiare e di adeguarsi ai tempi, avendo come obiettivo quello di elevare la qualità dell’informazione nell’interesse dei cittadini. Da questo punto di vista, andrà assicurato pieno sostegno al lavoro del Consiglio nazionale dell’Ordine nel definire regole di accesso che non potranno prescindere da una formazione universitaria e dal necessario innalzamento dell’asticella dei doveri per chi fa informazione. L’Ordine dei giornalisti è una specificità italiana nel mondo. Se vuole continuare a essere tale e non essere percepito come un’anomalia – anche fra noi c’è chi la pensa così – deve farsi sempre più garante della qualità dell’informazione e del rispetto delle regole professionali. Servono coraggio e determinazione. Non soltanto per cambiare, ma anche per restituire dignità, decoro e credibilità alla professione e alla categoria, adottando provvedimenti esemplari nei confronti di chi con la professione e la categoria ha davvero poco a che fare. Dalla riforma che verrà è lecito aspettarsi anche un ordine professionale più aderente alla realtà del mercato del lavoro. Se 50mila iscritti all’Ordine sono oggi sconosciuti all’Inpgi un problema esiste ed è evidente. Siamo l’unica categoria professionale nella quale, per effetto di una legge figlia di un’altra epoca, l’iscrizione all’albo prescinde dall’iscrizione all’ente previdenziale di categoria. È un problema di
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credibilità della professione, ma anche un problema di politica sindacale perché le battaglie per il riconoscimento dei diritti dei più deboli vengono annacquate dalla presenza di un esercito di riserva refrattario alle regole e pronto a lavorare senza retribuzione: una manna per le aziende editoriali.
In una fase di profonda trasformazione, bisogna ripartire dalle regole generali, dal quadro delle leggi di settore per consentire agli attori del sistema di agire in un contesto normativo di certezze. Dalla crisi dell’editoria non si può uscire senza il sostegno pubblico, esattamente com’è stato per altri settori. Il tema non sembra però interessare i governi. Il precedente esecutivo non si è sottratto all’ascolto e al confronto, ma non è andato molto oltre, limitandosi a pochi interventi. Dal governo in carica, dopo l’avvio di una fase di confronto da parte del sottosegretario all’editoria, Vito Crimi, sono invece arrivati e continuano ad arrivare segnali di forte ostilità.
Compito del sindacato non è quello di scegliersi gli interlocutori e neppure di cambiare atteggiamento in base al colore dei governi. Non esistono governi amici o nemici per definizione: bisogna confrontarsi con tutti. A patto, però, che ce ne siano le condizioni. Il gruppo dirigente della Fnsi ha saputo costruire un’interlocuzione con le più alte cariche dello Stato, dal presidente della Repubblica ai presidenti delle Camere, sui temi delle libertà e dei diritti. Sugli stessi temi non si è registrata la stessa apertura e la stessa capacità di ascolto da parte del governo. Ferma restando la nostra disponibilità, riteniamo che nessun confronto sia possibile con chi si pone come obiettivo la delegittimazione e l’annientamento dell’interlocutore. Se qualcuno pensa di trovare nella Fnsi una stampella su cui poggiare la propria propaganda populista, farà bene a rivolgere lo sguardo altrove. È questo, per il momento, l’approccio dell’attuale governo o almeno di una parte importante di esso: prima si decide, si taglia il fondo per l’editoria, poi si chiede al sindacato di sedersi al tavolo per condividere scelte scellerate. Un approccio che è la naturale conseguenza di una visione politica che punta ad eliminare i corpi intermedi, qualsiasi forma di mediazione e qualsiasi voce fuori dal coro, nel tentativo di instaurare una sorta di democrazia diretta in cui uno vale uno, salvo dimenticare che il passo successivo è quello di contare zero. Noi riteniamo che questa impostazione vada contrastata. Altro che Rousseau. Bisogna ripartire da Voltaire. Se, come è evidente, il tentativo è quello di mettere ai margini l’informazione, di criminalizzare i giornalisti, di colpire il pluralismo, la risposta del sindacato non può che essere la denuncia e la lotta.
Deve essere chiaro – anche a qualcuno fra noi – che non si può dialogare con chi, come per esempio il vicepremier Luigi Di Maio, parla di “infimi sciacalli” senza neanche avvertire la necessità di una qualche forma di ravvedimento, auspica pubblicamente la chiusura di alcuni giornali, tenta di strumentalizzare i precari e gli autonomi, dopo aver affossato qualsiasi tentativo per migliorare la normativa sul lavoro, si compiace per l’azzeramento del fondo per l’editoria, convoca strumentalmente tavoli sull’equo compenso e sul lavoro precario in cui la Fnsi dovrebbe discutere con non meglio identificate associazioni del lavoro precario che
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evocano forme di sindacalismo giallo. Se il ministro del Lavoro vuole confrontarsi seriamente, senza furbizie e sotterfugi, troverà nella Fnsi un interlocutore rispettoso e disponibile. Intanto, lui e i suoi colleghi di governo, hanno perso un’occasione. Se avessero accettato l’invito ad intervenire a questo Congresso, avrebbero avuto un momento di confronto pubblico, trasparente, senza fraintendimenti con le massime assise della categoria.
Fino a quando l’atteggiamento del governo sarà questo, non potrà non esserci una reazione. Quella reazione che il 13 novembre scorso il sindacato dei giornalisti italiani ha reso pubblica in venti piazze d’Italia – voglio ringraziare per questo tutte le associazioni regionali di stampa, l’Ordine dei giornalisti e le altre associazioni – dopo gli insulti che il vicepremier e ministro del Lavoro e un esponente del suo movimento avevano rivolto ai colleghi e alle colleghe che si erano occupati dell’inchiesta giudiziaria in cui era stata coinvolta anche la sindaca di Roma. Sono le colleghe e i colleghi che seguono l’inchiesta “Mafia Capitale”, che avevano denunciato le storture e le incongruenze dell’amministrazione capitolina anche con il precedente primo cittadino. Sono la parte buona della professione, quella di cui andare fieri, perché ogni giorno, come tanti colleghi in ogni parte d’Italia, fanno il loro dovere, sforzandosi di illuminare periferie sociali e culturali, in cui spesso prospera il malaffare. È quel giornalismo di inchiesta e di denuncia, quel giornalismo di qualità che dà fastidio anche a chi governa, l’esatto contrario del “copia e incolla”. Non è un caso che qualcuno, al governo, dopo non aver resistito alla tentazione di fare una classifica di giornali buoni e giornali cattivi – un film andato in scena anche nel passato – ha provato a spiegarci che i mezzi di informazione dovrebbero limitarsi a pubblicare le notizie, astenendosi da qualsiasi commento o presa di posizione. Insomma, la negazione del pluralismo, la voglia di pensiero unico perché è chiaro che nessuno può impedire ad un giornale di dare la propria lettura della realtà, di portare avanti, partendo sempre dal rispetto della verità, la propria visione del mondo, non limitandosi a raccontare i fatti, ma interpretandoli, fornendo chiavi di lettura, spunti di riflessione, alimentando il pensiero critico, insomma di fare quell’operazione che Aldo Moro chiamava “l’intelligenza degli avvenimenti”.
Un governo che fissa come obiettivi programmatici il taglio delle provvidenze all’editoria e la cancellazione dell’Ordine dei giornalisti, in chiave chiaramente ideologica e ritorsiva, è un governo che dichiara guerra ad un settore fondamentale per la vita democratica del Paese, prima ancora che ad una categoria professionale. Nessuno può avere paure delle riforme. Un conto, però, è ragionare di regole ferree e difficilmente aggirabili per il sostegno pubblico a tutela del pluralismo, ancorandolo al rispetto delle leggi, delle Carte deontologiche e anche dei contratti di lavoro – quest’ultimo punto è stato inserito, proprio su richiesta della Fnsi, nell’articolo 2 della legge 198 del 2016, la miniriforma approvata dal Parlamento – un è altro azzerare tutto per ragioni ideologiche. Un conto è portare avanti la proposta di uno Statuto dell’impresa editoriale, che vincoli gli editori a precisi doveri, a cominciare – come da noi richiesto – dal cosiddetto “rating di legalità” già previsto per legge per tutte le
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aziende che partecipano ad appalti pubblici. Un altro è compiacersi, come purtroppo è avvenuto, per le difficoltà di mercato di alcune testate e per i tagli ai salari e all’occupazione o, peggio ancora, annunciare trionfalmente il taglio dei contributi pubblici alle testate – penso a Manifesto e Avvenire, a Libero e Foglio – che scrivono cose sgradite al governo. Lo stesso discorso vale per il tentativo di cancellare la convenzione con Radio Radicale.
Non solo. Un governo che si rende colpevole di un golpe in pieno agosto in viale Mazzini non tollera il pluralismo e ne persegue la cancellazione. L’occupazione del servizio pubblico da parte di chi ha vinto le elezioni non è certo un’invenzione del governo del cambiamento. Il sindacato, insieme con i colleghi dell’Usigrai, esattamente come nel recente passato aveva denunciato all’Anac le assunzioni di giornalisti e dirigenti in violazione del piano anticorruzione e presentato ricorso contro la sottrazione alla Rai di 150 milioni del canone, ha avvertito forte la necessità di puntare il dito contro una procedura di nomina avvenuta in applicazione di norme approvate dalla precedente maggioranza parlamentare. Norme duramente contestate non soltanto dal sindacato dei giornalisti, ma anche da chi allora era minoranza parlamentare e oggi – questo il paradosso – a ruoli invertiti non ha esitato a servirsi di quelle norme per occupare il servizio pubblico esattamente come era avvenuto in passato. Noi non abbiamo cambiato idea e continuiamo a ritenere che sia necessaria una normativa che sottragga la Rai al controllo dei governi. Altri si sono immediatamente calati nei ruoli imposti dal cosiddetto teatrino della politica, spingendosi a mettere al vertice del servizio pubblico, della prima azienda culturale del Paese, chi ha alimentato campagne contro il presidente della Repubblica e non ha mai nascosto i propri legami con piattaforme di propaganda vicine alla Russia. Alla luce di alcune scelte effettuate anche di recente nel servizio pubblico, non vorremmo che gli attacchi al Capo dello Stato fossero diventati una precondizione per ottenere incarichi.
Se questo è lo spirito dei tempi, è chiaro che il percorso di riforma delle leggi di sistema diventa una strada impervia. È un clima decisamente diverso rispetto a quello che, nel 1981, in una fase delicata di trasformazione per il settore, portò all’approvazione della legge 416, la legge sull’editoria, il cui impianto generale è tuttora in vigore, ma avrebbe bisogno di una revisione. Quella legge nacque dalla consapevolezza, radicata negli attori del sistema, Federazione nazionale della Stampa italiana in primis, che era necessario intervenire in profondità per sostenere la trasformazione e assicurare la sopravvivenza di un settore fondamentale per la democrazia. A quella legge lavorarono alcuni dei più affermati giuristi e costituzionalisti della storia di questo Paese: Paolo Barile, Enzo Cheli, Valerio Onida, Giuliano Amato, Giovanni Conso. Oggi l’approccio è di carattere ideologico ed è caratterizzato dalla volontà di regolare i conti con la categoria: intervenire non per sostenere la fase di trasformazione e favorire il rilancio del settore, ma per punire i giornalisti e gli editori. Il taglio del fondo per l’editoria, messo a segno nonostante i moniti del presidente della Repubblica, si inserisce in questo clima di forte ostilità e
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di guerra dichiarata al pluralismo. Non che in passato non ci siano stati interventi di ridimensionamento delle risorse. Questa volta, però, è diverso perché si parte dal taglio per arrivare all’azzeramento. Non potendo colpire i cosiddetti “giornaloni”, nei cui confronti era stato minacciato il taglio della pubblicità delle aziende a partecipazione pubblica, ci si è accaniti contro le realtà più piccole. Un colpo durissimo al pluralismo dell’informazione, ma anche al mercato del lavoro perché è indubbio che quel provvedimento distruggerà numerosi posti di lavoro, alimentando il precariato. Se la linea è questa, è chiaro che la politica dei tagli non si fermerà qui, ma – le prime avvisaglie ci sono già – rischia di estendersi anche ad altri comparti, come agenzie di stampa ed emittenza locale. Sulle agenzie di stampa non è escluso che il governo peggiori – al peggio non c’è mai limite – la scriteriata regolamentazione partorita dal precedente esecutivo e dall’allora ministro con delega all’editoria, Luca Lotti, rimasto insensibile a qualsiasi proposta di modifica, a cominciare da quella avanzata dalla Fnsi, che, in un quadro di assoluta legittimità, avrebbe consentito da un lato di tutelare la specificità e il ruolo delle agenzie di informazione primaria, dall’altra di salvaguardare i livelli occupazionali. La vertenza Askanews, per citare la più attuale e la più drammatica, non è soltanto il risultato della fuga dell’editore dalle proprie responsabilità, ma anche di una normativa sbagliata e di un atteggiamento da parte dell’attuale governo che non lascia intravvedere nulla di positivo.
Nessuna meraviglia, ovviamente. Perché se l’obiettivo è indebolire l’informazione e colpire i giornalisti va bene tutto. Anche il disimpegno e l’omissione. L’atteggiamento assunto sul tema delle minacce ai cronisti, delle querele bavaglio e sul contrasto al precariato è da questo punto di vista emblematico. Le minacce ai cronisti sono una delle criticità che minano alla base la libertà di espressione in Italia. È un fenomeno che negli ultimi anni ha fatto registrare una preoccupante escalation. Le mafie non amano i riflettori. È per questa ragione che sono ancora tanti – attualmente 21 – i colleghi costretti a vivere sotto scorta, protetti dallo Stato perché qualcuno cerca di impedire loro di fare il loro dovere, di illuminare territori in cui prospera la criminalità organizzata, di alimentare con la denuncia e la testimonianza la speranza di un futuro migliore per intere comunità. Due di loro sono delegati a questo Congresso – Michele Albanese e Paolo Borrometi – e consentitemi di esprimere, proprio attraverso la loro presenza, la vicinanza di queste assise e di tutta la categoria ai colleghi che vivono la loro stessa condizione. La scorta non è un privilegio, come purtroppo pensa qualcuno al governo, che ne minaccia o ne dispone la revoca a scopo ritorsivo nei confronti di cronisti considerati scomodi o non allineati. La recente vicenda di Sandro Ruotolo, al quale era stata revocata la scorta nonostante fosse minacciato da un boss del clan dei casalesi per la sua incessante attività di inchiesta e di denuncia, è una vergogna alla quale soltanto la reazione dell’opinione pubblica e di molta parte della categoria ha consentito di porre rimedio.
La Federazione nazionale della Stampa italiana non intende lasciare solo nessuno. Continuerà a battersi, anche con tante associazioni della società civile, perché venga
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fatta piena luce sugli omicidi di cronisti ancora in attesa di verità e giustizia, penso alla collega del Tg3 Ilaria Alpi e all’operatore Miran Hrovatin, ammazzati in Somalia nel 1994 – un caso che noi non archiviamo – ma anche ad Antonio Russo di Radio Radicale, ucciso nel 2000 in Georgia in circostanze mai chiarite. Penso anche alla battaglia in cui la Fnsi, proprio in ragione dell’adesione ai valori fondamentali della Costituzione, è al fianco dei genitori di Giulio Regeni per chiedere verità e giustizia sul suo omicidio avvenuto tre anni fa in Egitto.
A partire dal quadriennio che si è appena concluso, questa Federazione ha deciso di essere sempre parte civile – a patto che ce lo chiedano i colleghi interessati – in tutti i processi a carico di coloro che con le minacce e le aggressioni e ai cronisti minacciano e aggrediscono il diritto di cronaca e il diritto dei cittadini ad essere informati. È un impegno nato dall’auspicio del compianto Santo Della Volpe, che quattro anni fa, nel Congresso di Chianciano, eleggemmo presidente della Fnsi. Un auspicio che abbiamo raccolto e portato avanti insieme con il presidente Giuseppe Giulietti, con la segreteria, la giunta esecutiva, il Consiglio nazionale, le Associazioni regionali di Stampa, e – consentitemelo – con il collega Michele Albanese, al quale la giunta esecutiva ha voluto affidare la responsabilità dei progetti e delle iniziative in tema di legalità. È grazie a questo impegno che sono già arrivate le prime condanne e i primi risarcimenti alle parti civili, in Sicilia come a Roma. È grazie a questo impegno che il tribunale di Pavia, nel processo contro i presunti colpevoli per l’omicidio di Andy Rocchelli, il fotoreporter ucciso in Ucraina, nel quale la Fnsi è parte civile insieme con l’Associazione lombarda dei giornalisti, ha riconosciuto al sindacato dei giornalisti la legittimazione ad agire in giudizio a tutela della libertà di espressione e del diritto dei cittadini ad essere informati, a prescindere dal fatto che il minacciato sia iscritto all’Ordine dei giornalisti.
È la scelta politica di non lasciare soli questi colleghi e di affiancarli anche con la scorta mediatica che, nella passata legislatura, ha spinto l’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, a istituire il “Centro di coordinamento per le attività di monitoraggio, analisi e scambio permanente di informazioni sul fenomeno degli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti”. Si tratta di un organismo nel quale sindacato e Ordine possono interloquire direttamente con i vertici delle forze dell’ordine, inquadrare correttamente ciascun episodio e pianificare linee di intervento e strumenti, anche di prevenzione, per difendere e tutelare i colleghi. La solerzia mostrata finora nei casi di minacce ad opera di organizzazioni mafiose e criminali, è però necessario che caratterizzi anche l’azione delle autorità preposte, e del Viminale in particolare, nel contrasto alle minacce e alle aggressioni ai cronisti da parte di gruppi neofascisti e neonazisti. Gli episodi più volte denunciati nel Nord Italia e la recente aggressione subita a Roma da due cronisti dell’Espresso meritano una risposta ferma ed esemplare da parte del Viminale e della magistratura. Sbaglia chi cerca di derubricare questi episodi a fenomeni di folklore. Dopo decine di denunce, qualcosa comincia a muoversi perché anche nelle autorità sta maturando la consapevolezza che si tratta di squadrismo di matrice fascista e in quanto tale va contrastato: la Fnsi sarà parte civile
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nei procedimenti penali che dovessero essere avviati esattamente come lo è e lo sarà in quelli per le minacce e le aggressioni ai cronisti da parte della criminalità organizzata.
Non va poi dimenticata un’altra forma di minaccia ai cronisti, subdola, ma non meno pericolosa. È quella costituita dalle cosiddette querele bavaglio e dalle richieste di risarcimento in sede civile a mero scopo intimidatorio. Per contrastare questo fenomeno, sempre più diffuso, abbiamo presentato a governo e Parlamento, nella passata e nella legislatura in corso, una proposta in linea con l’indirizzo giurisprudenziale consolidato della Corte europea dei diritti umani. Oggi è molto semplice, e perfino conveniente, provare a intimidire un cronista, e talvolta anche il suo editore, soprattutto se è molto piccolo, con una richiesta di risarcimento danni milionaria. In caso di soccombenza, il rischio è quello di pagare le spese del giudizio, ossia poche migliaia di euro. Se invece la sanzione pecuniaria fosse proporzionale all’entità del risarcimento richiesto – esattamente come sancito dalla Corte europea dei diritti umani – il discorso cambierebbe radicalmente.
Su questa proposta la politica ha deciso di non decidere. Nella passata legislatura, la modifica, inserita nella riforma del processo civile, sia pure con una formula non del tutto soddisfacente, è finita su un binario morto, fermandosi al Senato in quarta lettura. Nella legislatura in corso, è stata ripresa in una proposta di legge, che ha anche ricevuto il nostro pubblico sostegno, a firma di tre parlamentari del Movimento 5 Stelle, ma ad oggi nulla è cambiato. Tenere sotto scacco i cronisti con le richieste di risarcimento milionarie fa comodo a tutti. Anche alla politica. Che, più o meno per la stessa ragione, continua a tergiversare sull’abrogazione dell’articolo 595 del codice penale, ossia del carcere per i giornalisti, la cui presenza nel nostro ordinamento contribuisce a far sì che l’Italia continui ad occupare posizioni poco onorevoli nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa.
Il contrasto alle querele bavaglio e l’opposizione al carcere per i giornalisti continueranno a figurare fra le nostre priorità esattamente come il rigetto degli attacchi all’indipendenza e all’autonomia della professione attraverso l’attacco al segreto professionale e alla tutela delle fonti.
Su questo versante negli ultimi anni si è registrata una pericolosa involuzione, anche per l’azione invasiva di alcune procure. Le perquisizioni personali, nelle redazioni e nelle abitazioni dei cronisti, cosi come il sequestro degli strumenti di lavoro e dei telefoni cellulari, al solo fine di risalire alle fonti, rappresentano un’inaccettabile invasione della sfera personale e lavorativa, oltre che un’inammissibile violazione del segreto professionale. I provvedimenti adottati nell’ultimo biennio a Torino, Milano, Brescia, Tempio Pausania, Salerno – sicuramente ne dimentico qualcuno – talvolta con modalità degne di Paesi in cui la stampa viene considerata nemica della democrazia, sono un chiaro attacco alla segretezza delle fonti. Le interlocuzioni avviate con il Consiglio superiore della Magistratura e con l’Associazione nazionale
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magistrati hanno consentito di rappresentare il problema nella sua gravità. In alcuni casi, è stata la stessa magistratura a porre rimedio a quei provvedimenti. Il procuratore di Torino, Armando Spataro, arrivò a chiedere pubblicamente scusa ai colleghi della Stampa, ma il problema rimane. La politica ha pensato di risolverlo più volte – l’ultima con il Guardasigilli Andrea Orlando – con norme, penso a quelle sulle intercettazioni, che fortunatamente non sono entrate in vigore perché erano dirette a imbavagliare in qualche modo la stampa. Al ministro Orlando rispondemmo “no, grazie”, disertando il tavolo in cui avrebbero voluto farci ingoiare norme chiaramente restrittive per il diritto di cronaca. Ferme restando le prerogative di tutti, il problema è che giornalisti e magistrati fanno lavori diversi. Se i magistrati e i pubblici ufficiali hanno l’obbligo di tutelare il segreto istruttorio, è dovere dei giornalisti pubblicare tutte le notizie che hanno una rilevanza sociale. Quelle notizie, cioè, la cui pubblicazione è essenziale per soddisfare il diritto dei cittadini ad essere informati. Anche su questo punto, l’indirizzo della Corte europea dei diritti umani è chiaro e inequivocabile: i giornalisti hanno il diritto-dovere di pubblicare le notizie che hanno rilevanza per l’opinione pubblica, anche quelle coperte da segreto. È un principio che fatica ad affermarsi nel nostro Paese, come dimostra anche la vicenda del collega condannato per concorso in violazione di domicilio per aver documentato un’azione del Movimento “No Tav”.
In questo contesto, chiari segnali di involuzione si possono cogliere ovunque. Anche sul fronte dei rapporti di lavoro. La crescita delle diseguaglianze e della precarietà è diventata la cifra della nostra epoca e l’elemento distintivo del nostro settore. L’informazione sconta, esattamente come altri comparti produttivi, e per certi versi più di altri, il progressivo smantellamento della legislazione e il mutamento di indirizzi giurisprudenziali in materia di lavoro, con tutto quello che ne consegue in termini di perdita di diritti, tutele, garanzie. Negli ultimi trent’anni in Occidente i salari sono cresciuti meno della produttività. L’indebolimento dei sindacati e una globalizzazione asimmetrica e priva di regole, in cui il capitale è libero di muoversi e il lavoro molto meno, hanno contribuito ad accrescere le diseguaglianze. Il modo il cui è stata gestita la globalizzazione ha determinato salari più bassi perché è stato svuotato il potere contrattuale dei lavoratori. Si è fatto strada un singolare pensiero dominante, secondo cui le diseguaglianze sono necessarie per la crescita economica. Invece, è vero il contrario perché per crescere tutti e in modo sano ci sarebbe bisogno di una maggiore uguaglianza nella distribuzione del reddito.
Questo processo in Italia è iniziato negli anni ’90. Nel 1997, il cosiddetto “Pacchetto Treu”, in nome della flessibilità ha spalancato le porte all’indebolimento progressivo dello Statuto dei lavoratori, raggiungendo l’apice con il cosiddetto “Jobs Act”, la legge delega 183 del 2014. Se è vero che l’occupazione non si crea per decreto, è innegabile che oggi nel mondo del lavoro, nell’informazione come in altri comparti, ci siano migliaia di lavoratori ai quali non vengono riconosciuti diritti, tutele, garanzie, retribuzioni dignitose perché esistono leggi che hanno legalizzato la precarietà spacciandola per flessibilità. L’idea, sempre più diffusa, secondo la quale il
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riconoscimento di diritti fondamentali dei lavoratori è un ostacolo alla creazione di occupazione non è modernità, ma rappresenta un ritorno al Medioevo. Cancellare diritti e tutele del lavoro dipendente, com’è avvenuto in questi anni, non soltanto in Italia, non è flessibilità, ma significa ampliare l’area della precarietà. Per questa ragione, il sindacato dei giornalisti ha messo al centro della propria azione, sia nel confronto con i governi sia nel confronto con gli editori, la tutela del lavoro, nella consapevolezza che per costruire una società giusta bisogna restituire peso al lavoro. Da principale fattore di coesione sociale, il lavoro assente, discontinuo, precario, svalutato è diventato veicolo di trasmissione delle diseguaglianze e dell’esclusione sociale. C’è un evidente deterioramento della componente lavoro con inevitabili conseguenze sul piano economico e sociale che comprometteranno il futuro dei giovani. Il rischio che le cosiddette politiche di “labour saving”, ossia di riduzione della forza lavoro, fanno correre alle nostre società sembra non interessare nessuno, fatta eccezione per Papa Francesco che ha più volte ricordato come il lavoro, da fattore di riscatto sociale sia ormai diventato una forma di ricatto sociale.
Il lavoro è ormai scomparso dall’agenda politica. La principale preoccupazione dei governi sono diventate le pensioni, un tema che consente di raccogliere facili consensi elettorali, ma che è di cortissimo respiro sia perché manca un approccio di carattere strutturale e di sistema che consenta di ancorare le uscite dal mondo del lavoro al necessario ricambio generazionale, sia perché soltanto lo sviluppo dell’occupazione, l’attenzione alle nuove generazioni, può assicurare la necessaria stabilità al sistema pensionistico.
Quando parliamo di ricatto sociale non possiamo non pensare ai giornalisti precari, giovani, ma molto spesso non più giovani, costretti ad accettare condizioni al di sotto della soglia della dignità e di sopravvivenza. Equo compenso per gli autonomi e abrogazione della figura dei cococo, che per il settore dell’informazione rappresentano quello che i voucher rappresentavano per gli altri comparti del mondo del lavoro, ossia una forma di sfruttamento legalizzato, sono due priorità. Che su entrambe le misure si registri la ferma opposizione degli editori, non stupisce. Che anche i governi facciano finta che il problema non esista è grave e inaccettabile. È la ragione che, alla fine del 2017, ci portò a manifestare pubblicamente contro le scelte a senso unico dell’allora ministro con delega all’Editoria, Luca Lotti. Non era in discussione da parte nostra il fatto che il governo avesse sostenuto processi di trasformazione e piani di ristrutturazione aziendali. I nostri erano rilievi di merito: a fronte di 188 milioni di euro stanziati fra il 2014 e il 2018 per finanziare le uscite dal mondo del lavoro tramite i prepensionamenti, cui si aggiunsero sgravi sugli investimenti pubblicitari nel biennio 2017-2018, nulla veniva richiesto alle aziende editoriali come contropartita in termini di sviluppo dell’occupazione e di lavoro regolare. Non un impegno a rivedere in senso più favorevole ai lavoratori il rapporto di 3 a 1 fra uscite in prepensionamento e nuove assunzioni obbligatorie. E neppure, da parte del governo, la volontà di cancellare quella parte del cosiddetto Jobs Act che aveva lasciato in vigore per le sole professioni ordinistiche la figura dei collaboratori
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coordinati e continuativi. L’esecutivo rinunciava alla necessaria funzione di riequilibrio sociale, condannando migliaia di colleghi ad una precarietà indecorosa e immorale.
La figura dei cococo è diventata la forma più diffusa di aggiramento del contratto di lavoro giornalistico e uno dei principali ostacoli al rinnovo del contratto nazionale di lavoro Fieg-Fnsi. Molti dei posti di lavoro dipendente persi con prepensionamenti, pensionamenti di anzianità e di vecchiaia sono stati sostituiti dai collaboratori coordinati e continuativi. Basta guardare i numeri per capire perché. La retribuzione media lorda annua dei 7.795 collaboratori coordinati e continuativi attivi – stando agli ultimi dati Inpgi – è di 9.792 euro l’anno. A un cococo vengono richieste le stesse prestazioni del lavoratore dipendente – deve occuparsi di cronaca nera, bianca, giudiziaria, fare inchieste e talvolta anche l’inviato – ma il costo del lavoro medio è di circa sei volte inferiore alla retribuzione media di un giornalista assunto con rapporto di lavoro ex articolo 1 del contratto Fieg-Fnsi. Va leggermente meglio ai 14.949 lavoratori autonomi con partita Iva, per i quali la retribuzione media annua è di 14.818 euro, ma in un caso e nell’altro siamo in presenza di lavoro sottopagato, che non può assicurare quei livelli di qualità reclamati dagli editori per rilanciare l’informazione professionale. L’aumento esponenziale degli iscritti alla gestione separata dell’Inpgi è l’indice più evidente della tendenza delle aziende editoriali a spostare il lavoro fuori dalle redazioni. Nel 2015 erano 41.168, oggi sono 43.351, di cui 18.990 sono iscritti anche alla gestione principale.
La cosa più grave è che nella passata come nella legislatura in corso un emendamento per l’abrogazione dei cococo è stato bocciato su richiesta del governo. La prima volta, nel dicembre 2017, lo stop arrivò in commissione Bilancio della Camera prima che la manovra di bilancio approdasse all’esame dell’aula. La seconda volta, nel luglio 2018, nell’aula della Camera, per volontà del governo, che ha accolto il parere contrario del ministero del Lavoro all’emendamento presentato da Liberi e Uguali e votato da tutti i gruppi dell’attuale minoranza parlamentare. L’ultima volta, due mesi fa, quando lo stesso emendamento è stato riproposto in sede di manovra di bilancio ed è stato dichiarato inammissibile dallo stesso ministero e dalla maggioranza parlamentare. È una battaglia che continueremo a portare avanti.
Lo stesso discorso vale per l’equo compenso e la liquidazione giudiziaria dei compensi, sui quali la Commissione lavoro autonomo ha prodotto iniziative di sensibilizzazione, anche pubbliche. I collaboratori pagati “a pezzo” sono il 65 per cento della categoria. A questo mondo in espansione si deve dare un giusto riconoscimento anche in termini di diritti sindacali, rappresentanza anche nelle vertenze aziendali e accesso al welfare. Un piccolo segnale, su quest’ultimo versante, è la convenzione Inpgi-Casagit che permetterà l’accesso alle prestazioni sanitarie di oltre seimila colleghe e colleghi iscritti alla gestione separata dell’Inpgi. Il costo dell’iscrizione alla Casagit sarà a carico della gestione separata dell’Inpgi, così come
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previsto nella delibera approvata sotto la presidenza di Andrea Camporese, che dopo un lungo iter ministeriale ha ottenuto il via libera definitivo qualche settimana fa.
La filosofia dell’equo compenso non può essere quella, ancora oggi rivendicata e applicata in alcune realtà, del “più scrivi meno ti pago”. L’equo compenso non può non avere come parametri di riferimento l’articolo 36 della Costituzione e i contratti nazionali che regolano il lavoro dipendente. La chiusura degli editori su questi aspetti trova un alleato nell’atteggiamento dei governi volto a far sì che il lavoro debole sia sempre più debole e privo di tutele. Un governo che vuole affrontare seriamente il problema del lavoro autonomo deve convocare il tavolo per l’equo compenso e approvare il decreto per fissare i parametri per la liquidazione giudiziaria dei compensi dei lavoratori autonomi, esattamente com’è avvenuto per tutte le altre professioni ordinistiche. Se i giornalisti sono stati lasciati fuori la ragione è intuibile: giornalisti più deboli possono essere ricattati più facilmente.
È un tema dal quale nessuno può chiamarsi fuori. Non le istituzioni, ma nemmeno gli editori. Occorre ragionare su un ormai ineludibile spostamento delle risorse, sicuramente non illimitate, sugli investimenti, sullo sviluppo, sulla riduzione delle diseguaglianze, sull’inclusione di numerosi colleghi fuori dalle garanzie contrattuali, sull’occupazione e sulla difesa del reddito. Nel settore della carta stampata non si può pensare di proseguire sulla strada intrapresa nell’ultimo decennio con lo stanziamento di milioni di euro esclusivamente per i pensionamenti anticipati, il ricorso agli ammortizzatori sociali, la distruzione del lavoro subordinato sostituito dal lavoro atipico, parasubordinato e irregolare e la destrutturazione di fatto del contratto nazionale di lavoro. Il contratto Fieg-Fnsi, che è stato prorogato fino al successivo rinnovo, richiede sì un profondo intervento di innovazione, ma su che cosa questo debba significare bisogna intendersi. L’innovazione non può essere quella inseguita dagli editori, ossia la destrutturazione dell’impianto contrattuale e la cancellazione di quasi tutti gli istituti in esso previsti. Innovazione significa mettere al centro la lotta alle diseguaglianze e l’inclusione sociale di chi nel perimetro del contratto c’è già, ma non ha alcun diritto, alcuna tutela e alcuna forma di garanzia. Si può intervenire sulle figure contrattuali, si possono e si devono inserire nuovi profili professionali, ma non si può prescindere dalla cornice del lavoro subordinato. O si riparte da qui o si dovrà arrivare ad una vertenza pubblica. Non è una battaglia corporativa, la nostra, ma è la rivendicazione della dignità del lavoro.
L’obiezione secondo la quale saremmo rimasti arroccati nella difesa di un fortino sempre più piccolo mentre la modernità ci travolgeva non regge perché coloro che lo affermano – gli editori – nulla hanno fatto affinché ci fosse un trasferimento di reddito verso quella che per loro è la vera modernità, ossia la libera professione, il lavoro fuori dalle redazioni. La verità è che l’unico modello che hanno in mente prevede lo svuotamento delle redazioni e l’aumento del lavoro precario. Questo quadro mette a rischio un presidio democratico, qual è l’informazione, creando una vera e propria emergenza. L’ostacolo al rinnovo del contratto nazionale di lavoro è
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principalmente questo: per noi l’inclusione è imprescindibile. Certo, a questo si aggiunge un’altra questione che è l’eredità di un altro mondo e di un’altra stagione, un macigno che andava tolto dal tavolo, con un intervento di carattere strutturale bilanciato, già alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, quando era chiara a tutti l’insostenibilità dell’istituto. Mi riferisco alla cosiddetta indennità “ex fissa”. L’alto numero di uscite dal mondo del lavoro ha aggravato la situazione di deficit del Fondo, che si era già palesata molto tempo prima in tutta la sua gravità. Di fronte alla tentazione di qualche editore di mandare definitivamente in default il fondo, il gruppo dirigente della Fnsi, anche grazie alla fattiva collaborazione delle Associazioni regionali di Stampa e dell’Unione nazionale giornalisti pensionati, ha voluto e saputo trovare un’interlocuzione con i vertici della Fieg che ha portato alla soluzione che tutti conoscete, ossia la facoltà offerta agli aventi diritto di ottenere in un’unica o in due o tre soluzioni l’importo maturato con una decurtazione, a fronte del periodo di rateizzazione più lungo previsto dal contratto. La sottoscrizione di quell’accordo ha ulteriormente raffreddato gli editori sul fronte contrattuale. Innanzitutto, perché le risorse destinate all’ex fissa, in particolare al pagamento degli interessi sul finanziamento concesso dall’Inpgi, non sono risorse aggiuntive, ma importi che vanno comunque computati nel capitolo relativo al costo del lavoro. E poi perché, prima di investire sul contratto, molti editori vogliono vedere come finirà la partita dell’ex fissa perché è sempre vivo il timore che una qualche sentenza di tribunale, in qualche parte d’Italia, sancisca che il debito deve essere onorato dai datori di lavoro dei giornalisti che hanno maturato il diritto.
Questa soluzione, faticosamente raggiunta e resa possibile grazie alla disponibilità dell’Inpgi, rappresenta la declinazione in termini concreti di quella solidarietà intergenerazionale di categoria, spesso soltanto predicata. L’accordo fra le parti sociali ha fatto sì che al pagamento dei colleghi che hanno chiesto la liquidazione anticipata con decurtazione sull’importo maturato fossero destinati 6,7 milioni accantonati nel fondo contrattuale alimentato con il contributo dello 0,60. Si tratta di somme che il contratto destina a finalità sociali, come per esempio il finanziamento di ammortizzatori sociali o della disoccupazione. Averli destinati al pagamento dell’ex fissa con l’accordo di tutti, anche della parte più debole della professione, quella che si dimena in un precariato che sembra un tunnel senza uscita, significa aver fatto prevalere l’interesse all’unità della categoria. Purtroppo, non sempre è così. Le polemiche, le invettive, gli insulti di qualche minoranza rumorosa seguite alla decisione dell’Inpgi di richiedere ai titolari di trattamenti pensionistici un contributo di solidarietà per importi assolutamente contenuti non è stata una bella pagina per la categoria e per la professione. Fermo restando il diritto di ciascuno di far valere le proprie ragioni, anche in giudizio, la solidarietà non può mai essere a senso unico. Noi non ci salviamo se non comprendiamo che ci lega un destino comune di categoria: lavoratori dipendenti, autonomi, precari, pensionati sono parti essenziali dello stesso mondo.
È il lavoro regolare la condizione essenziale per alimentare la categoria e mantenerne in vita gli enti e gli istituti. Il confronto con gli editori, finora limitato a singole
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tematiche, legate per lo più agli stati di crisi, deve ripartire dalle fondamenta, sempre che siano disponibili. Un lavoro che deve coinvolgere tutti, a cominciare dai comitati di redazione, stremati da un decennio di stati di crisi, spesso senza soluzione di continuità, e da una corsa verso il basso delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro. Ripartire dalle fondamenta significa affrontare tutti i nodi, dall’organizzazione del lavoro alle nuove figure professionali, dalla cancellazione delle disparità di inquadramento e di trattamento economico spesso legate alle differenze di genere alla qualità della vita dentro e fuori dalle redazioni, al sostegno, anche in termini di formazione finalizzata al reinserimento lavorativo, a chi ha perso il posto di lavoro ed è ancora lontano dalla pensione. L’ultimo decennio è stato caratterizzato da una crisi economica gravissima, la peggiore dal secondo dopoguerra secondo gli analisti, che in Italia ha lasciato strascichi più che in altri Paesi europei. Il settore editoriale ha pagato in termini di fatturato e di posti di lavoro la debolezza strutturale della nostra economia. Attualmente tra i 19 Paesi dell’area euro – sono dati del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica del governo – soltanto Portogallo (-1,2 per cento), Italia (-5,4 per cento) e Grecia (- 25,2 per cento) devono ancora recuperare in termini di Pil la situazione ante crisi. Come se non bastasse, gli ultimi dati negativi sul Pil nel quarto trimestre del 2018 dicono che l’Italia è di nuovo in recessione. Il quadro generale ha influito notevolmente sul nostro settore. Nel 2008 gli occupati erano 18.866. L’ultimo dato del 2018 è di 15.016 occupati. Il saldo negativo è di 3.850 posizioni attive, pari al 20,4 per cento. Un dato reso più preoccupante dal numero in costante crescita dei trattamenti di pensione diretta, passati dai 4.256 del 2008 ai 7.240 del 2018, con un incremento del 58,7 per cento. Nel 2018 il rapporto fra attivi e pensionati è sceso a 1,56. Anche il rapporto fra media dei trattamenti pensionistici e media retributiva fa registrare ulteriori motivi di allarme. Negli ultimi quattro anni il trattamento medio di pensione diretta è rimasto sostanzialmente invariato, l’ultimo dato è di 65.510 euro lordi annui; la retribuzione media è invece passata da 60.752 euro lordi a 59.775 euro lordi.
Il bilancio sarebbe stato più pesante senza il welfare di categoria. Non solo contratti di solidarietà e cassa integrazione. Il ricorso ai pensionamenti è stato il principale ammortizzatore sociale. Non sempre è stato utilizzato correttamente. Se in molti casi i pensionamenti anticipati ex lege 416 del 1981 e i pensionamenti di anzianità hanno evitato licenziamenti e operazioni di macelleria sociale, in altri casi l’uscita anticipata dal mondo del lavoro si è trasformata in un escamotage legale per alleggerire i bilanci delle aziende e trasferire i costi sul bilancio dell’Inpgi. Numerosi sono ancora oggi i giornalisti che dalle redazioni sono usciti soltanto formalmente e che da pensionati continuano fare esattamente quello che facevano da attivi, anche gli inviati. Un danno per il mercato del lavoro, ma anche per l’istituto previdenziale della categoria. È una situazione che non può più trovare alcuna forma di tolleranza. Le maglie larghe della legge – modificata in senso più restrittivo e aderente alle regole sul pensionamento di vecchiaia soltanto alla fine del 2016 – hanno permesso a tante aziende di utilizzare lo
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strumento della cosiddetta crisi prospettica per mandare in pensione i giornalisti a 58 anni con 18 anni di contributi. Il conto lo ha pagato e continua a pagarlo l’Inpgi.
Le trasformazioni del mercato editoriale richiedono politiche contrattuali articolate. La scelta politica compiuta 19 anni fa di sottoscrivere con Aeranti e Corallo il contratto nazionale dell’emittenza radiotelevisiva locale – contratto di cui è stata rinnovata la parte economica – nel tempo si è rivelata giusta perché ha consentito di dare certezze ad un settore vitale per il pluralismo dell’informazione e dignità al lavoro di 1.516 colleghi – questo è l’ultimo dato disponibile – altrimenti destinati ad uno sfruttamento selvaggio e ad un lavoro senza diritti, senza tutele, senza garanzie. È la stessa filosofia che ha convinto il gruppo dirigente della Fnsi, insieme con le venti Associazioni regionali di stampa, a sottoscrivere con l’Uspi il primo contratto nazionale di lavoro che regola i rapporti di lavoro nei periodici a diffusione locale e nelle testate on line non collegate a quotidiani, periodici, emittenti radiotelevisive nazionali, prevedendo anche figure professionali figlie del mondo digitale. È la filosofia di chi ritiene che vadano riconosciuti i diritti, le tutele del lavoro subordinato, gli strumenti del nostro welfare anche a chi opera in realtà strutturalmente deboli. Il 90 per cento delle società che pubblicano esclusivamente testate on line – secondo i dati dell’Agcom – non raggiuge i 100mila euro annui di fatturato. Anche in questo caso si è trattato di una scelta politica. Si poteva far finta di non vedere e continuare a coltivare l’illusione, o meglio ad alimentare un pregiudizio antistorico secondo cui il contratto di lavoro giornalistico è sempre e soltanto quello sottoscritto nel 1911, abbandonando questi colleghi allo sfruttamento, al precariato e, nella migliore delle ipotesi, a lavorare come cococo o partite Iva. Oppure si poteva guardare in faccia alla realtà e sottoscrivere un contratto che garantisse l’autonomia professionale, a partire dal richiamo alla legge 69 del 1963, e fissasse regole precise, orari di lavoro, ferie retribuite, riconoscimento della malattia, inquadramento previdenziale, profilo di assistenza sanitaria presso la Casagit, retribuzioni adeguate e in linea con quella che è la realtà del mercato del lavoro del Paese. Si è trattato di un avanzamento anche sotto il profilo delle qualifiche perché è stata riconosciuta e regolata la natura giornalistica di numerose mansioni nate nel mondo del web e che rischiavano di essere inquadrate in altre categorie professionali. È stato un modo per parlare anche alla parte più giovane della professione, quella troppo spesso abbandonata a se stessa e che legittimamente tende a non riconoscersi negli enti della categoria perché ne avverte la distanza. Un atteggiamento che anche in Italia, come nel resto del mondo, abbiamo pagato anche noi in termini di perdita di iscritti al sindacato. Non illusioni, allora, ma dignità e inclusione.
Sono queste le linee che devono continuare a guidare la nostra azione anche nel confronto con la pubblica amministrazione. È un settore nel quale il lavoro giornalistico c’è e ci sarà sempre di più, ma che andrà regolato con un accordo ad hoc. Il protocollo quadro sottoscritto con l’Anci va in questa direzione. L’attacco al contratto di lavoro giornalistico applicato negli uffici stampa di alcune regioni è in atto da tempo. C’è una burocrazia, a livello nazionale e di singole regioni, che ritiene
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che il contratto di lavoro giornalistico sia un corpo estraneo, di cui va cancellata prima possibile ogni traccia. Le mai chiarite ambiguità della legge 150 del 2000, quella sugli uffici stampa pubblici, non aiutano a definire un percorso lineare. La recente dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge approvata dalla Regione Lazio nel 2017, per violazione dell’articolo 117 della Costituzione, chiude alla possibilità di applicare il contratto Fieg-Fnsi negli uffici stampa della Regione Lazio e trasferisce di fatto la questione al tavolo dell’Aran. La sentenza della Consulta non produrrà alcun effetto automatico nelle altre Regioni dove nel corso degli anni sono state approvate leggi regionali per regolamentare il lavoro giornalistico. È però un dato di fatto che in alcune Regioni, solerti burocrati stanno cercando di smantellare leggi ancora in vigore, provando ad applicare un profilo contrattuale che ancora non c’è. La dichiarazione di intenti, sottoscritta a maggio 2018 da Aran ed Fnsi, apre la strada alla definizione concertata del profilo professionale del giornalista nella pubblica amministrazione, anche sul versante della regolamentazione di aspetti peculiari della nostra professione, dalla flessibilità degli orari all’autonomia professionale, fino all’iscrizione alla Casagit e al fondo pensione complementare. Senza enfasi alcuna, dopo 18 anni dall’entrata in vigore della legge 150, dopo numerosi contenziosi giudiziari e non poche incomprensioni, finalmente chiarite, con i sindacati maggiormente rappresentativi del personale della pubblica amministrazione, quella dichiarazione congiunta fra Aran e Fnsi inaugura una nuova fase. Un capitolo tutto da scrivere, ci auguriamo in fretta, che – fermi restando i diritti acquisiti e il valore del contratto Fieg-Fnsi – pone le basi per un contratto Aran-Fnsi all’insegna del riconoscimento dei rapporti di lavoro, dei diritti e di retribuzioni adeguate, dell’allargamento della base professionale e contributiva.
Si tratta di un passaggio imprescindibile anche per la sopravvivenza di Inpgi e Casagit. In dieci anni di crisi, gli enti economici della categoria hanno fatto di tutto per mantenere in equilibrio i conti, cercando di incidere meno possibile sul livello delle prestazioni. Il pesante disavanzo registrato dall’Inpgi è il risultato di un decennio di uscite dal mondo del lavoro – dai prepensionamenti ai pensionamenti anticipati incentivati fino ai licenziamenti – e di un mercato del lavoro in cui è difficile intravvedere elementi di dinamismo e segnali di inversione di tendenza. Difendere il welfare della nostra categoria, un complesso di tutele e prestazioni di gran lunga più favorevole di quello previsto nel sistema generale, è un dovere e una necessità. Di qui, la scelta di mettere l’inclusione al centro delle politiche contrattuali, guardando a mondi che oggi tendono a sfuggire, come quello degli uffici stampa delle aziende pubbliche e private e del giornalismo nelle reti radiotelevisive, fuori dalle testate giornalistiche. Occorre avviare un’interlocuzione con Confindustria e sostenere lo sforzo dell’Usigrai per il riconoscimento del contratto di lavoro giornalistico ai colleghi che esercitano l’attività professionale nei programmi di approfondimento e a tutti coloro che anche nelle testate del servizio pubblico fanno lavoro giornalistico senza il giusto inquadramento contrattuale.
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L’accordo di recepimento del contratto di lavoro giornalistico, sottoscritto da Rai, Usigrai e Fnsi, contiene un’importante apertura da parte dell’azienda sull’avvio di un percorso di riconoscimento del giornalismo nelle reti. Ampliare il concetto di professione, tenendo fermi i capisaldi della legge ordinistica, è possibile, così come è necessario guardare a mondi contigui a quello del giornalismo per assicurare la sopravvivenza dei nostri istituti di categoria. Portare i comunicatori nell’Inpgi è un’operazione non soltanto possibile, ma anche utile perché senza snaturare la professione giornalistica si assicura sostenibilità all’Istituto di previdenza. Lo stesso discorso vale per la Casagit. La comune volontà è quella di intraprendere un percorso condiviso per giungere all’individuazione di un nuovo modello che assicuri la sopravvivenza della Cassa di assistenza, anche attraverso la vendita di servizi ad altre categorie di professionisti e di lavoratori. La Casagit fu costituita dalla Fnsi nel 1974, 45 anni fa, come associazione non riconosciuta. Serve un processo di trasformazione ambizioso che deve consentirle di operare sul mercato in un periodo medio-lungo con una governance saldamente nelle mani dei giornalisti, senza mettere in discussione né la centralità dell’assistenza, né la salvaguardia del patrimonio e neppure l’originario spirito di solidarietà fra gli iscritti. La riflessione deve essere ampia e partire da un dato di fatto, ossia che il Servizio sanitario nazionale, nato 40 anni fa, è sempre più in affanno. La riduzione degli spazi di intervento e di assistenza da parte della sanità pubblica ci chiama a valorizzare l’originaria natura integrativa della Casagit per assicurare agli iscritti livelli elevati di prestazioni in tutto il territorio nazionale. Bisognerà avere coraggio e osare perché il mercato dell’informazione tradizionale è ancora attraversato da una crisi che è la crisi di un modello industriale. Ad essere investita di più è la carta stampata. Dal 2007, anno in cui sono arrivati l’iPhone e Facebook, le vendite di copie dei giornali sono passate da 6,1 milioni al giorno a 2,6 milioni del 2018, dato quest’ultimo che include anche le copie digitali. Nel giro di dieci anni la raccolta pubblicitaria su tutti i media si è ridotta di 1,3 miliardi e la quota di mercato relativa alla carta stampata è passata dal 31 al 13 per cento. Le cause sono molteplici, ma è innegabile che abbia pesato, e non poco, l’avvento del web, che è stato visto da tutti gli editori come un segmento in cui provare a raggiungere ampie fette di utenti. L’illusione è stata quella che il numero degli utenti e dei contatti sarebbe stato così alto da garantire una sostenibilità economica basata sulle entrate pubblicitarie. Così non è stato. Perché se è vero che gli utenti che ogni giorno consultano almeno una volta un sito on line di informazione raggiungono i 12 milioni, il mercato della pubblicità non è cresciuto come ci si aspettava. Negli ultimi dieci anni si è passati da 950 milioni a 2,9 miliardi di euro. Il 75 per cento di queste risorse finisce ai cosiddetti over the top, cioè Google e Facebook. Oggi il 75 per cento del fatturato di un’azienda editoriale arriva dalla carta. Il web, per quanto sviluppato e per quanto abbia imposto un’organizzazione del lavoro completamente diversa da quella tradizionale, non è in grado di remunerare da solo il costo del lavoro.
Ci sono delle eccezioni. Al sito web del New York Times si accede soltanto per abbonamento: il quotidiano ha puntato sulla qualità e, grazie a tre milioni di sottoscrittori, i profitti hanno superato i ricavi pubblicitari. È un modello, quello delle
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sottoscrizioni, non facilmente replicabile in Italia, considerato che il New York Times, si rivolge ad un’utenza globale. Anche in Italia la maggior parte dei quotidiani è dotata di paywall, ma gran parte degli utenti preferisce per il momento le notizie gratis. Alla lunga, però, la gratuità va a discapito della qualità. Se la democrazia richiede un’informazione qualificata e di qualità, questa informazione non può non avere un costo adeguato. Per questa ragione l’imprenditoria italiana dell’informazione deve adeguarsi alla modernità, rilanciare e investire sulla qualità e sul lavoro regolare. Le imprese editoriali italiane, non solo quelle per la verità, non sono adeguatamente capitalizzate. Fino a quando continueranno a dipendere dal sistema bancario lasceranno che bilanci e piante organiche vengano vigilati dalle banche, con queste ultime che, per non mettere a rischio i propri affidamenti, chiederanno di ridurre i costi fissi.
Occorrono interventi profondi. Continuare a subire la rapina dei contenuti in rete e l’offensiva dei colossi del web senza intervenire sui flussi pubblicitari diretti e indiretti legati all’utilizzo delle notizie, significa condannare il giornalismo e la professione. Su questo punto, esiste una comune percezione del problema. È un fatto positivo che Federazione degli editori e sindacato dei giornalisti siano dalla stessa parte nella battaglia, condotta insieme con altre associazioni di lavoratori intellettuali, per la tutela a livello europeo del copyright.
La battaglia per il copyright rappresenta un passaggio cruciale per il futuro dell’informazione professionale, così come di numerose professioni intellettuali. Introdurre l’obbligo del pagamento di diritti a carico di chi ogni giorno diffonde gratuitamente attraverso piattaforme digitali, social network e motori di ricerca una grande quantità di notizie pubblicate dai giornali non significa penalizzare gli utenti della rete, ma vuol dire difendere l’informazione di qualità e tutelare la dignità del lavoro. Dopo aver cercato di impedire l’approvazione della direttiva a settembre 2018, i giganti mondiali del web stanno provando a svuotare o ad annacquare i regolamenti. In queste ore, a Bruxelles, sono in corso riunioni che potrebbero portare ad una svolta. La battaglia per il riconoscimento del cosiddetto diritto connesso al diritto d’autore è una battaglia per la dignità del lavoro e, nel caso dell’informazione, anche una battaglia per la democrazia. Chi produce informazione è un imprenditore che investe, assume giornalisti e personale dipendente e, per questo, si aspetta un ritorno in termini di fatturato e di utili. Se quotidianamente il prodotto giornalistico viene non soltanto saccheggiato attraverso la rete, ma consente anche ai cosiddetti over the top di ricavare profitti ingenti attraverso la raccolta pubblicitaria e il traffico dei dati forniti dagli utenti della rete, si crea un problema sia per le imprese editoriali, costrette a ridurre il numero dei giornalisti e a ridimensionare l’offerta di notizie, ma anche e soprattutto per la democrazia.
Da questo punto di vista, non è un caso che fra i governi che hanno esercitato un potere di veto nella procedura di definizione della normativa europea sul copyright ci sia anche il governo italiano. Ma c’è di più. La campagna avviata da Google sulla
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maggior parte dei quotidiani è un’entrata a gamba tesa sul mercato editoriale. Il messaggio del colosso della rete, rivolto agli editori e agli inserzionisti, è chiaro: la vostra visibilità dipende da me. Google ha in mano il potente algoritmo che ogni giorno permette di conoscere tutto ciò che i giornali pubblicano in tutto il mondo. La posta in gioco è molto più alta: il controllo della circolazione delle notizie e delle opinioni in tutto il mondo. Attraverso il proprio algoritmo, Google può decidere di diffondere o cancellare un giornale, una notizia o un’opinione. La mercificazione dei contenuti operata da Google, dove l’autorevolezza è secondaria rispetto al profitto, e i flussi di Facebook, dove è difficile distinguere contenuti giornalistici e fake news, hanno creato un ecosistema socialmente distruttivo.
Non si può sottostare ai ricatti di Google perché la circolazione dei contenuti e delle opinioni è un servizio pubblico che deve essere condiviso con i produttori. Per questo la Fnsi continuerà ad essere in prima linea insieme con i colleghi dell’Ifj, dei sindacati europei dei giornalisti e con tutte le organizzazioni che si sono già mobilitate a livello europeo affinché l’iter per il riconoscimento del diritto connesso al diritto d’autore venga completato e si traduca in regole che poi diventino vincolanti negli stati membri.
Sarebbe il passo decisivo che permetterebbe al settore non soltanto di reperire risorse per il rilancio, ma anche di riavviare il confronto sull’informazione in Italia, le sue regole, a cominciare da quelle per il lavoro, e i modelli di business, ormai entrati in crisi ovunque. Ridimensionamenti, accorpamenti, chiusure sono il denominatore comune di numerosi stati di crisi. Non pochi editori meditano l’uscita, neanche troppo soft dal sistema, e hanno già cominciato a dismettere testate storiche. La vendita di Panorama e la volontà di fare altrettanto con numerose testate che fanno capo alla divisione francese di Mondadori, non apre soltanto scenari inquietanti sotto il profilo dell’occupazione e della regolamentazione dei rapporti di lavoro, ma anche e soprattutto dell’organizzazione del lavoro e del rispetto dei canoni fondamentali della professione. Sul mercato si affacciano imprenditori che stanno già sperimentando modelli di produzione che fanno a meno del lavoro giornalistico strutturato. Non va neppure taciuto il rischio di nuove concentrazioni proprietarie, finora sottovalutato, se non ignorato, dalle Autorità di garanzia, anche a causa di un sempre più evidente vuoto normativo.
È un problema diffuso, ma guai a dimenticare che ci sono aree del Paese in cui l’informazione sta scomparendo lentamente. C’è una questione meridionale dell’informazione, sempre più tangibile non soltanto in termini di emorragia di copie vendute e di perdita di quote di mercato e di posti di lavoro, ma anche in termini di ritirata progressiva dal mercato da parte degli imprenditori. I presidi storici dell’informazione al Sud Italia rischiano di scomparire. La vertenza in corso alla Città di Salerno, il ridimensionamento progressivo del Mattino di Napoli, un tempo baluardo e punto di riferimento per tutto il Meridione, la crisi di una testata come la Gazzetta del Mezzogiorno, 130 anni di storia che rischiano di essere cancellati
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perché, come se non bastassero stati di crisi e tagli ripetuti, è finita, insieme con la Sicilia di Catania, in un provvedimento di sequestro con confisca delle quote societarie disposto nei confronti dell’editore nell’ambito di un’inchiesta antimafia, sono segnali di allarme da non sottovalutare. Senza voler entrare nel merito delle inchieste della magistratura, che devono andare avanti, riteniamo che non si possa sequestrare e confiscare un giornale come se fosse un’azienda qualsiasi. L’interesse costituzionale alla corretta amministrazione della giustizia va bilanciato con il diritto costituzionalmente riconosciuto ai cittadini ad essere informati. Il sequestro giudiziario di un’azienda editoriale non può portare alla chiusura di un giornale e alla perdita di posti di lavoro, come purtroppo accadrà se non prevarrà il buon senso. L’informazione è un servizio pubblico essenziale per ogni comunità, al Sud in particolare perché la crisi è più grave che nel resto d’Italia e mette a rischio la convivenza civile.
Deve partire da queste assise, allora, l’impulso per riportare al centro del dibattito il tema del mercato dell’informazione in tutte le sue componenti, dal lavoro, sempre più destrutturato, agli investimenti pubblicitari che in un decennio di crisi economica hanno fatto registrare un calo complessivo impressionante. Vanno affrontati i nodi strutturali che da decenni rappresentano un pesante fardello per tutto il comparto: basso tasso di lettura, mercato squilibrato a favore della televisione, e adesso anche dei cosiddetti Over the Top, che tendono sempre più ad eludere il pagamento delle tasse, sistema di distribuzione poco elastico e ormai insufficiente.
La Fnsi dovrà farsi promotrice di un grande momento di confronto pubblico con tutti gli attori del sistema, che affronti questi nodi e abbia come tema portante il rapporto fra democrazia, informazione e lavoro. Il governo e il mondo politico devono essere chiamati ad una presa di coscienza e di responsabilità sulla deriva in atto. Si mettano da parte la demagogia e la voglia di regolamento di conti. Devono prevalere il dialogo, il confronto in un clima di reciproca legittimazione e il senso di responsabilità: a queste condizioni ci siamo e ci saremo sempre.
Care colleghe, cari colleghi,
siamo chiamati a riaffermare il nostro ruolo come categoria di professionisti. Questo significa ripartire dalla nostra dimensione collettiva contro chi vuole cancellare il Noi per affondare i colpi in una moltitudine di individualità o di solitudini. Senza Noi collettivo non esistono organizzazioni che possano durare nel tempo. Non è un’operazione facile e neppure scontata perché, come ammoniva Zygmunt Bauman, “i poteri globali sono intenti a smantellare qualsiasi rete densa e fitta di legami sociali, e in particolare quelle reti profondamente radicate nel territorio, per poter godere di una costante e crescente fluidità, la principale fonte della loro forza e garanzia della loro invincibilità. Ed è la caducità, la friabilità, l’inconsistenza e la provvisorietà dei legami e delle reti di interazione umana che consente, in ultima analisi, a tali poteri di assolvere il loro intento”.
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Noi collettivo, allora, significa riaffermare la nostra identità, non affidarsi alle pulsioni del momento, respingere gli attacchi e gli insulti di chi vuole impedire ai cittadini di conoscere, connettersi ai mondi vitali, creando solide alleanze sociali sul fronte delle libertà e dei diritti. Occorre realizzare un’unità non di facciata o puramente nominale, ma basata su una visione condivisa del futuro e della professione, oltre che sui valori della Costituzione. Valori che mai potranno essere oggetto di negoziazione e di scambio, perché – lo ha spiegato qualche giorno fa il presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi – la nostra Carta racchiude un’idea di società democratica, pluralista, aperta, tollerante, che è la base della convivenza civile.
Se la posta in gioco è questa, non possiamo restare in silenzio, ma dobbiamo riscoprire la lotta. Abbassare la guardia sulle libertà e sui valori significa rassegnarsi a fare passi indietro sul piano della tutela dei diritti. Se ci riflettiamo per un attimo, ci rendiamo conto che si tratta di un tema che ha diviso la nostra categoria fin dalle origini. Già ai tempi di Bava Beccaris, ci si interrogava se non potesse risultare conveniente mantenere un profilo basso nei confronti di chi attentava ai valori e alle libertà per non compromettere le trattative sulle condizioni materiali. Oggi come allora, è necessario essere intransigenti sulle libertà e sui valori perché qualsiasi cedimento su questo terreno comporta un generale arretramento sul fronte della contrattazione. L’impennata delle diseguaglianze nella società e nel mondo del lavoro a livello globale è anche il risultato di un generale cedimento sui temi della libertà e della dignità delle persone e dei lavoratori.
Unità sui valori significa riscoprire la partecipazione, quel confronto fondato sulla dialettica delle idee che i gruppi dirigenti devono condurre a sintesi e a compromessi alti. È il sale democrazia, l’esatto contrario del populismo.
Norberto Bobbio diceva che dobbiamo essere “democratici sempre in allarme”. È un’esortazione che chiama direttamente in causa il nostro ruolo e la nostra professione. Perché in democrazia le armi dei cittadini sono innanzitutto l’informazione e la conoscenza.