L’immensità, la gioia, la bellezza, quelle maniche rimboccate al suono della tromba del ferroviere Oreste Bolmida, quel quarto d’ora granata che rimane l’immagine di un’epoca povera ma felice, nella quale tutto sembrava possibile dopo l’orrore della guerra. Nel settantesimo di Superga, Valentino Mazzola avrebbe compiuto cent’anni. Ne aveva trenta quando l’aereo su cui viaggiava, insieme al resto del Grande Torino, si schiantò contro il terrapieno della basilica, ponendo fine a una leggenda che non è mai finita e mai potrà finire, essendo destinata all’eternità.
Mazzola nacque un secolo fa a Cassano d’Adda, sulle rive del fiume che aveva ispirato il Manzoni, da una famiglia poverissima nella quale tutto era fatica. Non a caso, si guadagnò il soprannome di “tulèn” (latta) perché un barattolo di latta era tutto ciò che aveva a disposizione per dar sfogo al suo talento.
Non divenne mai ricco: nulla a che spartire con i peperoni di oggi. Aveva uno stipendio cinque volte superiore rispetto a quello di un operaio della FIAT: il pudore e la sobrietà dell’epoca erano inflessibili e contrari ad ogni forma di eccesso e di divismo.
Era senz’altro il giocatore più forte del suo tempo, il numero dieci per eccellenza, nel Toro e in Nazionale, un campione che oggi guadagnerebbe cifre folli, avrebbe richieste dai migliori club europei, sarebbe sulle copertine di tutte le principali riviste, sportive e non solo, e avrebbe un procuratore che dalla sua gestione guadagnerebbe cifre stratosferiche. Per fortuna, capitan Valentino appartiene a un’altra epoca, a un altro mondo, a una stagione romantica e irripetibile nella quale il calcio era davvero solo uno sport e quei ragazzi che correvano la domenica su un prato d’erba erano i poeti del riscatto di un Paese misero e affamato, nel quale tuttavia il poco che si aveva a disposizione si era disposto a condividerlo con gli altri.
Cosa è stato, del resto, lo stesso Grande Torino se non un bene comune, una straordinaria impresa collettiva che aveva nel suo capitano la punta di diamante ma non certo l’unico esponente degno di essere menzionato? Chi è stato Mazzola se non un simbolo, un modello, un esempio e un punto di riferimento per l’operaio che l’indomani sarebbe tornato a soffrire nella discriminatoria FIAT di Valletta e la sera, in molti casi, sarebbe tornato a dormire in una di quelle case di ringhiera con il bagno in comune sul ballatoio?
Mazzola era l’idolo di un’Italia in cui dilagava la voglia di vivere, era l’alter ego di Coppi e Bartali, un uomo con un passato difficile alle spalle e una vita coniugale non semplice. La sua dimensione privata era affascinante quasi quanto quella pubblica ma a noi piace rispettare la sua riservatezza, il suo vivere serenamente la propria immensità, il suo essere un genio del calcio per nulla desideroso di apparire in altre vesti, il suo desiderio di essere felice senza mai mancare di rispetto né disgustare nessuno.
Mazzola fu l’organizzatore della partita fatale, in quel di Lisbona, per rendere omaggio al suo amico Ferreira. Cadde, con il resto della squadra, come un ragazzo del ’99 nelle trincee della Grande Guerra, senza mai invecchiare, senza che una sola ruga, se non quelle della determinazione e dello sforzo, si posasse sul suo viso.
Oggi capitan Valentino fa cent’anni, e a noi che non l’abbiamo mai visto giocare ci piace pensare ch all’improvviso possa sbucare dagli spogliatoi di uno stadio granata gremito e festante, salutare il pubblico con la consueta educazione e dispensare almeno un lampo del suo infinito talento. E poi tornare lassù, accanto a Egri Erbstein, Tosatti, Casalbore e a tutti i suoi compagni. Perché, in fondo, Valentino non è mai morto e non morirà mai: è solo andato in trasferta.
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