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Teatro Mercadante di Napoli. “Oedipus” di Bob Wilson, la luce accecante della verità

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I diversi perimetri di lettura, le angolazioni disuguali applicabili alla tragedia per eccellenza – l’”Edipo re” di Sofocle –, uniti alla ricchezza interpretativa delle architetture di Bob Wilson, fanno di “Oedipus”, in scena al Teatro Mercadante di Napoli, un itinerario simbolico pregnante e complesso. Bob Wilson articola la sua visione della storia – che è visione del presente – in cinque quadri più un prologo. Sulla scena prende vita il conflitto tra buio e luce, inconsapevolezza e verità, ed è tutto un pulsare di segni, di metafore visive e sonore, per arrivare alla grande questione che il passato trasmette al presente: i nostri occhi sostengono la vista della verità? Le nostre orecchie ne sopportano il suono? Il messaggio sonoro e quello luminoso, il disturbo della verità, il rumore che la nasconde sono premesse con cui lo spettatore si confronta. A sala ancora illuminata, un riflettore puntato sulla platea porta qualcuno tra il pubblico a schermarsi gli occhi con la mano, con un dépliant, a fissare il pavimento. Un suono stridulo fa venire voglia di tapparsi le orecchie. Un’interpretazione definitiva non c’è e non può esserci, è certo tuttavia che lo spettacolo declina la verità nei suoi aspetti disturbanti, reboanti, accecanti, ma anche poetici, magnifici, distensivi, chiarificatori. Forse protagonista è proprio la veritas-aletheia: i fatti di Edipo sono i fatti dell’uomo, i fatti del mondo in tutta la loro insostenibilità, e richiedono il coraggio della visione, dell’ascolto.

Bob Wilson crea composizioni di movimento e di stasi, quadri di assoluta perfezione formale in cui – sul piano puramente estetico – supera se stesso dando al palcoscenico una forza visionaria che ricorda e, nella vivezza del teatro, nel coraggio della lentezza e dell’iterazione, oltrepassa, la videoarte di Bill Viola.

Nelle meccaniche perfette, si ergono sacrali le figure degli attori e dei danzatori. Mariano Rigillo, lunga barba, lunghi capelli bianchi, con indosso un manto spesso, appare come un patriarca biblico, un essere gonfio di tempo e saggezza, un Mosè dopo il roveto ardente. Il suo ruolo è quello di testimone, a lui spetta, nell’acuta costruzione drammaturgica di Konrad Kuhn, buona parte del racconto di una storia costruita sulle parole che ne rappresentano i nuclei espressivi. Rigillo si trasfigura in questo essere lontano, antico. La sua voce sostiene il peso della verità e affronta ciò che si propone di oscurarla, l’interferenza della società, del tempo, forse dell’inconscio, che a un certo punto emergono sotto forma di voci, di rumori e si confrontano con la vocalità e la fisicità inespugnabili del nostro miglior attore. Un Rigillo inedito, ma con la forza di sempre, elevata a potenza dalla bellezza delle immagini.

La dimensione del rito e del sacro attraversa le danze di Edipo – nella partitura fisica di Michalis Teophanous –, è nella grazia di Alexios Fousekis, nel pastore-Tiresia di Meg Harper, nei giovani attori della Scuola del Teatro Stabile di Napoli.
Si imprimono nella memoria molte immagini: il sentimento dello scontro tra padre e figlio, reso con un ripetitivo salto su delle lastre di metallo il cui rumore amplificato da un microfono nascosto sembra un battito sospeso, la festa nuziale resa con una danza quasi tribale, il palco che si riempie di sedie metalliche e di uomini che passano mentre qualcuno resta a guardare la vita. Ogni quadro ha per protagonista un materiale: assi di legno, rami secchi, lastre di metallo, rami verdi, sedie pieghevoli, grandi fogli di carta catramata.

Angela Winkler, fuoriclasse del Berliner Ensemble, è qui il secondo testimone, ruolo che vive con la sua raffinatezza scenica e anche con il coraggio di recitare in certi momenti in italiano. Lo spettacolo è in varie lingue e questo può avere – ha – un effetto babelico in più punti, ma a ristabilire un equilibrio, come una dea ex machina, è un’attrice statuaria e solenne, Kayije Kagame, creatura levigata del ventre terrestre, con una voce che ghermisce e una risata che esprime felicità e forza da una dimensione, da un tempo sconosciuti all’essere umano.

La perfezione e la bellezza non fanno, tuttavia, di “Oedipus” uno spettacolo vicino a qualsiasi pubblico e forse neppure lo spettacolo più efficace di Bob Wilson. “Oedipus” è un pensiero critico sul mondo che si fa luce e suono, è un oracolo di verità che ci fa fuggire, è – ammettiamolo – uno spettacolo difficile, altissimo, complesso, ogni tanto complicato. Si percepisce in sala, in una pomeridiana qualsiasi, il sentimento di un pubblico interdetto come un Edipo che va a Delfi e non sa bene che farci con il suo responso. C’è chi torna scocciato a Corinto, chi corre a Tebe dal destino, chi si perde per strada, chi avrebbe preferito una vacanza a Santorini. Bob Wilson chiede una cooperazione che lo spettatore – come è suo diritto – non sempre gli concede, e con qualcuno il colpo di fulmine non scocca, e finisce a male parole. Ma la controtendenza della lentezza da contemplare e una bellezza indiscutibile sono il dono per il nostro tempo. La bellezza non salverà il mondo. Non importa. Evviva la bellezza.


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