Ma che Paese siamo diventati? Quello che davanti agli interessi economici mette da parte tutti i buoni propositi, gli ideali e le idee di giustizia che hanno fatto di noi una Repubblica democratica. Gridiamo libertà, manifestiamo in piazza contro il razzismo, contro la violenza sulle donne, ci battiamo da sempre per la parità di genere e poi davanti al dio denaro scegliamo di scendere a compromessi senza nemmeno ascoltare la voce del popolo.
Abbiamo per anni utilizzato lo sport anche come mezzo per combattere ogni forma di discriminazione e di apartheid, ma oggi nessuno ha la facoltà di impedire che si giochi la partita di supercoppa Juventus-Milan il 16 gennaio a Jedda in Arabia Saudita. Partita che verrà trasmessa su Rai Uno alle 18.30 ora italiana. Le polemiche su questa scelta si stanno facendo sentire da settimane intensificatesi nelle ultime ore, ma l’Italia – si sa – davanti agli incassi rimane stordita, tanto da perdere la memoria e un po’ anche la dignità. Nemmeno la lodevole campagna lanciata dall’Usigrai, il sindacato Rai, nella persona di Vittorio di Trapani sarà in grado di impedire lo scempio di una partita in un Paese in cui da sempre vi sono violazioni dei diritti umani.
Probabilmente nella totale ignoranza di quello che accade nel paese del Golfo, la Lega Serie A anche con un pizzico di soddisfazione ha diffuso ieri un comunicato sulla vendita dei biglietti. Nel documento vengono elencate le procedure necessarie per l’acquisto dei tagliandi (in poche ore ne sono stati “spazzati” 50mila, sui 60mila disponibili) si legge “a gonfie vele la vendita” e le regole relative allo stadio, tra cui ne spicca una: ci saranno alcuni settori del “King Abdullah Sports City Stadium” riservati unicamente agli uomini. Eh già, solo agli uomini! Le donne non sono ammesse alla stadio se non nel settore misto.
Ma di cosa ci meravigliamo? Davanti a milioni di euro, ci siamo dimenticati che l’Arabia Saudita fino a pochi mesi fa era l’ultimo Paese al mondo a non riconoscere ancora il diritto di guidare alle donne, che finora dovevano fare affidamento su mariti, fratelli o autisti. Un divieto caduto grazie alle proteste di numerose attiviste che sono state punite con il carcere. Un Paese in cui gli spazi pubblici sono divisi in una sezione dedicata alla “famiglia” a cui possono accedere le donne, e una per i soli uomini. In cui le occasioni che le donne hanno di passare del tempo con uomini diversi dai membri della loro famiglia sono molto poche.
Un Paese non certo con cui fare affari e che mette la donna in una condizione di subalternità. Una ricca petro-monarchia wahhabita che ci ha letteralmente “comprato” a dispetto dei diritti e dei valori universali.