Prima il braccio di ferro con le Ong per non far attraccare le navi con i migrati sulle nostre coste, poi la risoluta e convinta decisione che sia necessario non occuparsi dell’Altro. Scaricare il peso bollente sugli altri o sull’Europa stessa colpevole di mistificata unità.
Non meraviglia allora se la nostra identità culturale non si esprima nella memoria ma in un illuminismo oscuro fatto di idee e valori incancrenite. Se in Italia alziamo un muro contro chiunque di “altro” voglia invadere le nostre regioni, con un linguaggio d’odio marcato, negli USA i democratici il muro non lo vogliono e tengono duro nonostante il rischio recessione. Concordano sull’accesso negato ma mentre da noi si parla di rimpatrio da loro si usa la parola deportazione.
Tranne rari momenti di rabbia repressa sui social, l’elettorato convinto, ignorando cosa significhi disprezzare o amare, si lascia cullare in un letargico accentramento del potere non rendendosi neanche più conto, forse, di quale forma abbia preso il proprio consenso. Una rappresentanza fatta di sterile sarcasmo manchevole persino di contegno. Una rappresentanza che è rimasta a guardare mentre neanche quattro anni fa Orbán in Ungheria ricuciva i confini dello stato con il filo spinato.
E’ fin dai primi anni dell’unificazione che il nostro Paese, intimorito e ossessivo, tenta di salvaguardare la propria identità da un presunto nemico che più spesso rivede nell’Altro. Tradita e impigrita l’azione, ecco che la disobbedienza civile di due Sindaci, Orlando e De Magistris, fatti immediatamente tacere, sorprendeva. La discussione allora si accende e si inasprisce su temi caotici e per nulla egualitari, quello che viene presentato al pubblico attraverso i media non ha neanche bisogno di essere filtrato per dimostrarsi per quello che è: inadeguato e privo di diritti. La prospettiva di Habermas fallisce sotto l’ultima confutata verità che vede nella percezione autorevole il massimo grado di emancipazione.
Le motivazioni di questo despota, le cui simili fattezze ricordano ai più gli orrori della guerra, sembrano essere stimolate da una ingombrante e spremuta emotività, distorta e non più sinergica, non più plurale, non più dinamica – semmai lo fosse stata. L’Altro con le sue differenze deve contagiare il pensiero dell’italianità e della sua rilevanza sociale: per essere salvato va distrutto come un’opera d’arte saccheggiata, violentata nello spirito.
Non è nuova l’idea che il continente dovesse proteggersi dagli intrusi, dalle migrazioni. Ciò era già insito negli accordi ratificati nel 1985 sull’area di Schengen. Eppure è nel manierismo dell’ignoranza che sembra infrangersi il decantato cambiamento. L’intolleranza radicale progredisce sotto i fasti di una nazione che soccombe al recupero di sé stessa.
Oggi è ancora più distante e incompreso il pensiero dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss che nel 2002 sosteneva: <<Quel che va salvato è la diversità e non il contenuto storico che ogni epoca le ha conferito e che nessuna può perpetuare. […] La diversità delle culture umane è dietro, attorno e davanti a noi. La sola esigenza che possiamo far valere nei suoi confronti è che essa si realizzi in forme ciascuna delle quali sia un contributo alla maggior generosità delle altre>>. L’ideale della tolleranza infatti elude e si infrange contro i classici e in-umanesimi prototipi di nuova democrazia, forse studiati in laboratorio e altamente sostenibili su carta ma interdetti nelle sue forme più acute di privazione individuale.
Se è vero che l’Italia, al momento, non ha un vero piano di accoglienza tale da garantire non solo il salvataggio e le prime e necessarie cure, ma anche una vita dignitosa alla persona (migrante), è tuttavia inconciliabile con la nostra Costituzione un comportamento atto a ledere e ad impedire a quella stessa persona di poter scegliere. Di fatto, l’etica dell’emergenza ormai abusata nei suoi stessi termini non trova nella Repubblica alcuna soluzione, se non quella scellerata di lasciare che uomini, donne e bambini restino in mare, o nelle gabbie, privati di sostegno e umanità da una democrazia che così abolisce i propri diritti civili.
Il pensiero critico, così ben espresso nelle scuole di ricerca sociale e sperimentale del Novecento, non trova allora più riscontro in questa società. Poche le menti che riescono ancora, pur mancando il terreno sotto i piedi, difendere le libertà e la memoria storica, sottratta da una società chiusa e negativa che non condivide più la percezione comune della Giustizia e che preferisce manipolarla a suo uso e consumo.
Chissà quale spazio stanno assumendo i pensieri rarefatti di quelle persone (migranti) respinte e di quelle che, a suon di passerelle irrispettose si vedranno stringere le mani con solenni messaggi durante la prossima Giornata della Memoria. Scene di buffa retorica avvilite nello sciapo ricordo di chi pur detenendo il potere, anziché aspirare al riscatto, cede sovvertendo il significato della Storia, oggi così superficialmente logica nella sua struttura, in una coerenza che, per dirla con Hannah Arendt, non esiste affatto nel regno della realtà.