Sanzioni Ue contro alcuni soggetti iraniani per presunti piani, nei mesi scorsi, di due attentati contro elementi dell’opposizione sul territorio europeo e per presunte responsabilità nell’assassinio di due cittadini olandesi di origine iraniana nel 2015 e 2017. Quelle decise nei giorni scorsi da Bruxelles rappresentano il punto più basso dei rapporti tra l’Unione Europea e l’Iran dal 2015, l’anno dell’accordo sul nucleare allora trionfalisticamente salutato da tutte le parti, ma finora vanificato dalla scelta unilaterale di uscirne da parte degli Usa del presidente Trump. Ma le misure, secondo un’altra lettura, potrebbero al tempo stesso anche essere un segnale politico di solidarietà interna europea dagli scarsi effetti sostanziali per Teheran, in un contesto generale in cui Bruxelles continui ad assicurare che il dialogo continua e così anche gli sforzi per aggirare le sanzioni secondarie contro l’Iran: quelle che ostacolano anche gli imprenditori europei e impediscono alla Repubblica islamica di raccogliere i vantaggi economici della sua rinuncia a perseguire per un paio di decenni il proprio programma nucleare, dallo scopo sempre dichiaratamente civile.
Dal Cairo alla Polonia la nuova offensiva di Pompeo contro Teheran
Tuttavia giungono, queste sanzioni europee, nel pieno dell’ennesima offensiva contro l’Iran da parte degli uomini della Casa Bianca. E in particolare del Segretario di Stato Mike Pompeo, che non solo ieri dal Cairo ha sconfessato su tutti i fronti l’eredità di Barack Obama per il Nord Africa e il Medio Oriente, ma ai microfoni di Fox News ha oggi anche annunciato un summit internazionale in Polonia per il 13-14 febbraio – quasi in coincidenza con il 40/o anniversario della Rivoluzione Islamica – centrato sulle asserite “influenze destabilizzanti” dell’Iran nella regione, ed al quale dovrebbero partecipare “dozzine di Paesi da ogni parte del parte del mondo”.
Tornando all’Europa, vediamo in sintesi di cosa si tratta. Le sanzioni approvate l’8 gennaio dai 28 stati membri riguardano un’unità del ministero dell’Intelligence iraniana e due suoi funzionari, ora inseriti nella lista dei terroristi della Ue e soggetti a confisca dei beni. Erano state chieste da Francia e Danimarca in relazione a due recenti episodi. Il primo nel giugno scorso a Bruxelles, dove vi erano stati alcuni arresti (fra cui quello di un diplomatico a Vienna) per la sospetta organizzazione di un attentato contro una grande convention a Parigi dell’Mko o Mek, i Mojahedin del Popolo. E’ questa un’organizzazione dell’opposizione iraniana all’estero – che aveva partecipato alla rivoluzione khomeinista come gruppo armato islamico con influenze marxiste, per poi schierarsi contro la Repubblica islamica e trovare rifugio prima in Iraq e ora in Albania – a lungo considerata terroristica dagli Usa e dall’Europa, ma ora tanto riscattata da tale status da vedere tra i suoi sostenitori presenti all’incontro di Parigi anche Rudolph Giuliani, ora avvocato del presidente Trump. Il secondo in Danimarca, il cui governo aveva accusato i servizi segreti di Teheran di aver cercato di assassinare sul suo territorio un attivista di un movimento separatista arabo sunnita, Al-Ahwaziya, che l’Iran ritiene responsabile del sanguinoso attentato del 22 settembre scorso ad Ahvaz, nel Kuzhestan. Recentemente inoltre i Paesi Bassi hanno espulso due diplomatici iraniani e l’Albania ha fatto altrettanto con l’ambasciatore di Teheran a Tirana e un altro diplomatico.
Se attentati in Europa furono pianificati, cui prodest?
Quale che sia la fondatezza dei sospetti e delle prove da parte delle diplomazie europee che hanno dato origine alle sanzioni (e sulle quali potrebbe un giorno essere chiamata a pronunciarsi la Corte di Giustizia dell’Aja), sorge legittimo un interrogativo: perché mai la Repubblica Islamica – Paese già nell’occhio del ciclone anche per le reiterate accuse da parte statunitense di esser il “maggior sponsor mondiale del terrorismo”, nonostante il suo ruolo decisivo nella sconfitta dell’Isis in Iraq e in Siria – dovrebbe in questa fase ordire attentati contro la sua opposizione all’estero, e proprio su quel suolo europeo che le dovrebbe essere più amico? E se questo fosse stato il caso, a quali entità o soggetti dello Stato tali trame dovrebbero essere addebitate? Al governo del moderato Hassan Rohani, alleato dei riformisti e da anni sotto il tiro degli ultraconservatori proprio per aver “ceduto” all’Occidente con l’accordo sul nucleare? O ad altre entità indipendenti da questo governo se non ad esso ostili, benché ugualmente “consustanziate allo stesso sistema politico?
Comunque sia, è stata netta la risposta ufficiale delle autorità iraniane alle sanzioni. “Gli europei, inclusi la Danimarca, l’Olanda e la Francia – ha scritto su Twitter il ministro degli Esteri Javad Zarif – danno ospitalità al Mek che ha ucciso 12 mila iraniani e ha sostenuto i crimini di Saddam contro i curdi iracheni, come ad altri terroristi che orchestrano l’uccisione di iraniani innocenti dall’Europa. Accusare l’Iran non assolverà l’Europa dalla responsabilità di dare riparo a terroristi”.
L’Mko è appunto accusata dall’Iran di avere compiuto per decenni numerosi attentati in patria e di aver combattuta a fianco di Saddam durante la lunga guerra Iran-Iraq degli anni Ottanta. Ora l’organizzazione, riconvertita nel Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, è un potente gruppo di influenza in Occidente, ha tra i suoi sostenitori anche il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump John Bolton e sostiene la linea del ‘regime change’ in Iran per l’instaurazione di una Repubblica democratica secolare. Ma resta dubbia la sua effettiva capacità di penetrazione in Iran, proprio per la scia di sangue che gli viene anche dalla popolazione addebitata.
Dopo l’annuncio delle sanzioni Ue, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Bahram Qasemi, ha annunciato l’adozione di misure equivalenti da parte di Teheran nei confronti dell’Europa, rimarcando che questa avrebbe dovuto mettere nella lista dei terroristi proprio l’Mko e il gruppo Al-Ahwaziya invece di accusare l’Iran, Paese “portabandiera nella lotta contro il terrorismo nella regione e al quale l’Europa deve la sua stabilità”.
Sullo Special Purpose Vehicle “per l’Europa il tempo sta finendo”
E’ fra gli altri il quotidiano Kayahn, voce di quegli ultraconservatori che da sempre accusano il governo di avere mal riposto la loro fiducia nell’Europa, a rimarcare che le nuove sanzioni Ue sono “ulteriormente frustranti” per l’Iran, perché l’Unione ha mancato di rispettare due scadenza promesse per la messa in opera dello Special Purpose Vehicle, ideato per bypassare le sanzioni Usa contro l’Iran. In realtà, come innumerevoli volte ribadito dalle autorità europee, all’Spv si sta lavorando: secondo fonti informate, la sua sede legale in un Paese Ue è stata già individuata, mentre servirebbe solo ancora qualche settimana di perfezionamenti tecnici perché lo strumento veda la luce. Ma da mesi i malumori covano in Iran, e anche Rohani e Zarif hanno incalzato senza più indulgenza Bruxelles affinché rispetti gli impegni presi. Se Teheran continua a collaborare con Bruxelles per il varo dello Spv, ha detto in sintesi Zarif durante un viaggio di tre giorni in India volto a rinsaldare i legami economici con New Dehli, “non aspetteremo gli europei e lavoreremo con i nostri partner tradizionali in Asia”. Ma a mettere la parola fine sembra averci già pensato l’autorevole segretario del Consiglio di sicurezza Nazionale Ali Shamkani, esponente del polo riformista-moderato dello stesso Rohani, che nei giorni scorsi ha sottolineato che ormai il tempo a disposizione dell’Europa per adempiere agli impegni presi con l’accordo sul nucleare è scaduto.
E dunque legittimo chiedersi se non stia ormai per girare definitivamente il vento per l’Europa in Iran. A dirlo saranno forse gli esiti dei prossimi Consigli degli Affari esteri della Ue, e le posizioni che assumeranno rispetto alla rinvigorita offensiva della Casa Bianca sui temi che questa ha posto sul tavolo – dai piani missilistici di Teheran alle sue politiche nella regione – Francia, Gran Bretagna Germania: le tre potenze che contribuirono all’accordo del 2015.