Lo scontro sul cuore dello Stato si è fatto durissimo, quello che si sta decidendo è se a settant’anni dal parto doloroso da cui è nato, il nostro Stato debba mantenere un cuore di carne o trapiantarsi un cuore di pietra. Si potrebbe definire uno scontro sull’identità: infatti porti chiusi od aperti, bambini discriminati fin dall’asilo, stranieri gettati nel gorgo perché “solo gli italiani”, non sono un cambio di politica, sono un cambio dell’Essere. È singolare come tutto si rovesci. Il governo populista insorge contro i Sindaci del popolo, il Paese che voleva dare una lezione all’Europa si fa lacché dell’Europa sigillandone i confini meridionali e armandone sul mare l’apartheid, il ministero della sicurezza pubblica si fa portatore della massima insicurezza promettendo la pacchia ai fabbricanti e venditori di armi, gettando i richiedenti asilo nella clandestinità, rompendo la legge dell’universalità della salute, per cui se una parte della popolazione non è curata anche l’altra si ammala, e accumula sulla testa dei cittadini e di quelli futuri la minaccia di un odio straniero e di incontrollabili sentimenti di vendetta di quanti porteranno nelle loro carni la memoria del rifiuto e delle persecuzioni subite nel nostro mare e nei nostri lager e centri d’identificazione ed espulsione. Come ha scritto la segretaria di Magistratura Democratica, Mariarosaria Guglielmi, “dobbiamo essere consapevoli che il nostro Paese sta rinnegando se stesso, la sua storia di accoglienza, l’orgoglio per le vite salvate dalla più grande azione di soccorso umanitario compiuta nel Mediterraneo rappresentata dall’operazione Mare Nostrum”.
Però la Repubblica non è perduta: essa, come dice la Costituzione all’art. 114, non è costituita solo dallo Stato, ma “dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. E Stato sono anche i cittadini pronti all’accoglienza, e Stato è anche la Costituzione che, come ha sancito una celebre sentenza della Corte Costituzionale del 1991, è fondata sulla “coscienza individuale”, che è “la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico” dei diritti inviolabili e delle libertà fondamentali dell’uomo, e quindi non solo ammette l’obiezione di coscienza ma, rispetto a leggi non umane, ne esige l’inosservanza.
E almeno la Chiesa veleggiasse con la sua barca pacificata e sicura! No, anch’essa è gettata nel mondo e ha celebrato questo Natale registrando “le afflizioni” che da fuori e da dentro la investono, come il papa le ha chiamate nel tradizionale discorso di auguri natalizi ai cardinali di Curia. Le afflizioni esterne: “Quanti immigrati, costretti a lasciare la patria e a rischiare la vita, incontrano la morte, o quanti sopravvivono ma trovano le porte chiuse e i loro fratelli in umanità impegnati nelle conquiste politiche e di potere. Quanta paura e pregiudizio! Quante persone e quanti bambini muoiono ogni giorno per mancanza di acqua, di cibo e di medicine! Quanta povertà e miseria! Quanta violenza contro i deboli e contro le donne! Quanti scenari di guerre dichiarate e non dichiarate! Quanto sangue innocente viene versato ogni giorno! Quanta disumanità e brutalità ci circondano da ogni parte! Quante persone vengono sistematicamente torturate ancora oggi nelle stazioni di polizia, nelle carceri e nei campi dei profughi in diverse parti del mondo!”.
E tuttavia le difficoltà interne, ha detto il papa, rimangono sempre quelle più dolorose e distruttive. Tanto la Chiesa è stata investita quest’anno da “tempeste ed uragani” che gli uni si sono chiesti se il Signore dormisse e non gli importasse che “siamo perduti”, altri, “sbalorditi dalle notizie hanno iniziato a perdere la fiducia in essa e a abbandonarla, altri, per paura, per interessi, per secondi fini, hanno cercato di percuotere il suo corpo aumentandone le ferite, altri non nascondono la loro soddisfazione nel vederla scossa, moltissimi però continuano ad aggrapparsi con la certezza che ‘le porte degli inferi non prevarranno contro di essa’ (Mat. 16, 18)”. Due sono state le piaghe che il papa ha voluto ricordare: quella di tanti “unti del Signore”, uomini consacrati, che abusano dei deboli, approfittando del proprio potere morale e di persuasione, e quella dell’ infedeltà di coloro che tradiscono la loro vocazione “per pugnalare i loro fratelli e seminare zizzania, divisione e sconcerto”. Di fronte a questi mali il papa ha rivolto alla Chiesa il monito supremo a specchiarsi in se stessa senza timore nel riconoscere il suo peccato, anzi il papa ha avuto il coraggio di ricordare che il primo ad aver peccato commettendo un triplice abuso, sessuale, di potere e di coscienza, era stato il mitico re David, unto del Signore e ascendente di Gesù, che aveva abusato della moglie del suo ufficiale migliore e con abuso di coscienza e di potere l’aveva mandato a morire in battaglia.
Ma da dove viene al papa la serenità e la fede con cui ancora annunzia al mondo la salvezza? Sembrava che egli avesse detto tutto, ormai, dopo più di cinque anni di pontificato. Ma ora, in questo tempo di Natale, più che mai vissuto come rivelazione della piccolezza e non della tremenda maestà di Dio, è come se avesse voluto dire la parola ultima, dare la consegna definitiva: meglio vivere come atei, se non si dà testimonianza dell’amore di Dio, meglio non frequentare le chiese che dire preghiere, queste sì “atee”, senza Dio, “odiando gli altri o parlando male della gente”. Questo è davvero il Vangelo portato all’estremo, com’è stato annunciato alla folla dell’ultima udienza generale, il 2 gennaio, come fece Gesù quando mise da parte se stesso dicendo: “Non chi mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio”. Il problema di Dio non è di mettere avanti se stesso, è di far crescere l’uomo alla sua statura, non è di essere ammansito, come divinità esigente, non è di essere conquistato con sacrifici ed olocausti, è che l’uomo abbia misericordia e il mondo sia salvo. Per la Chiesa è difficile ammetterlo. Per una Chiesa dichiarare di preferire l’ateismo a una fede ipocrita è come negare la propria ragione sociale, perché una Chiesa senza Dio non può esistere, sarebbe puro clericalismo, un orrore. Eppure per la Chiesa di Francesco sarebbe meglio non esistere, sarebbe meglio che Dio fosse non professato e non creduto, piuttosto che gli uomini non si amassero, piuttosto che non conoscessero l’amore, piuttosto che fossero uomini ad uomini lupi. Apostasia? No, è il Vangelo, è la “rivoluzione” del Vangelo, ha detto papa Francesco.
Non è un paradosso, perché l’amore è Dio, perché chi ama i nemici è, anche senza saperlo, “figlio del Padre”, e per questo la Chiesa è venuta, per annunziare l’amore. Si raggiunge così la sentenza che un grande monaco del 900, il camaldolese Benedetto Calati, ha lasciato alla fine della sua vita: la Chiesa dovrebbe educare a fare a meno della Chiesa, aprendo la strada allo Spirito, che è libertà; essa non è fine a se stessa, è mezzo, è strumento, è segno, è “ospedale da campo”, la sua funzione è pedagogica, è la pedagogia alla fede, all’incontro diretto con l’amore di Dio. E dicendo che è meglio l’ateismo che l’odio, la Chiesa esercita quel “ministero dello scambio” di cui ha parlato l’apostolo Paolo in una lettera ai Corinti: Dio si scambia col mondo, mediante il Figlio mette gli uomini al posto suo come destinatari d’amore, non pretende di essere lui amato per primo, è lui il primo ad amare, “primerea”, come dice sempre papa Francesco, fiorisce per primo, come il mandorlo in primavera. È il trapianto del divino nell’umano dentro la storia.