Ritardi nelle indagini. Inerzia nell’accertare le responsabilità e gli autori di una campagna denigratoria contro una giornalista d’inchiesta. Un clima di impunità contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che tutela la libertà di stampa come pilastro della democrazia. Con la conseguenza che la Corte di Strasburgo, con la sentenza Khadija Ismayilova contro Azerbaijan (ricorso n. 65286/13), depositata ieri, non ha avuto dubbi nel constatare che i ritardi e le “crepe” nell’indagine per atti contro un giornalista costituiscono una violazione dell’articolo 10 della Convenzione, che assicura la libertà di espressione e dell’articolo 8, che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare (CASE OF KHADIJA ISMAYILOVA v. AZERBAIJAN).
Con questa sentenza, quindi, la Corte europea dei diritti dell’uomo allarga il perimetro degli obblighi positivi degli Stati che non solo devono astenersi dall’ingerirsi nella libertà di stampa, ma devono anche adottare ogni misura per consentire l’esercizio dell’attività giornalistica, inclusi interventi che contrastino l’impunità di chi commette atti contro i reporter. Questo per evitare un chilling effect sulla libertà di stampa a danno del giornalista, ma anche della collettività.
A rivolgersi alla Corte, una cronista di inchiesta che aveva diffuso notizie critiche nei confronti del Governo e su sospetti di corruzione che coinvolgevano la famiglia del Presidente dell’Azerbaijan. La donna aveva ricevuto una lettera con minacce relative alla pubblicazione di un video che la riprendeva in un rapporto sessuale con il suo compagno. Poco dopo il video era stato diffuso su internet, seguito da altri. Tutto per bloccare la sua attività di denuncia. La giornalista aveva scoperto alcune telecamere nascoste disseminate nel suo appartamento e controlli sulla linea telefonica. Le autorità inquirenti avevano aperto un’indagine. La donna aveva criticato gli inquirenti per i ritardi e il procuratore aveva diffuso un rapporto indicando i testi ascoltati, con ciò svelando dettagli anche sugli amici della cronista. Ogni ricorso interno era stato respinto. Di qui l’azione dinanzi a Strasburgo. Nessun dubbio che le lettere e i successivi atti avevano l’obiettivo di intimidire la giornalista, con un’aggravante dovuta proprio alla percezione dell’impunità riguardo agli autori. In queste situazioni – osserva la Corte europea – gli Stati non solo hanno l’obbligo di adottare misure per proteggere i giornalisti da ingerenze nella vita privata, ma hanno anche un dovere di individuare e punire coloro che, con vari mezzi, provano a intimidire la stampa. Per la Corte, l’obbligo positivo che grava sugli Stati impone interventi anche nei rapporti tra privati e la creazione di un ambiente favorevole per la diffusione di notizie e opinioni di grande impatto e talvolta scioccanti.
Le indagini per individuare autori e mandanti dell’intimidazione verso la giornalista erano state deboli e svolte con continui ritardi, senza dimenticare che le stesse autorità inquirenti avevano diffuso notizie sulla sua vita privata, riprese anche da giornali filo-governativi. Un comportamento stigmatizzato dalla Corte che non ha esitato a considerare questo clima come contrario allo spirito della stessa Convenzione e alla libertà di stampa per realizzare la quale, in modo effettivo, è necessario creare un ambiente in cui gli stessi giornalisti si sentano tutelati.
Violati, quindi, gli articoli 8 e 10 della Convenzione, con la conseguenza che lo Stato deve corrispondere alla giornalista 15mila euro per i danni non patrimoniali e 1.750 euro per le spese sostenute.