“Se un giornalista scopre una notizia, la scrive. Tutto il resto fotte niente. C’era un ragazzo che in Calabria decise di fare il giornalista. Lo scelse con lo stesso slancio di un missionario, di un suonatore d’organo, di uno studente di sanscrito. …” L’attacco è accattivante, proprio da cronista. Perché Lucio Luca, caposervizio di “Repubblica”, siciliano, è un ottimo cronista e parla di Alessandro Bozzo, cronista più giovane ma altrettanto bravo che si è tolto la vita nel 2013 dopo le umiliazioni subite in un giornale calabrese da un editore amico dei potenti e colluso con la criminalità. “L’altro giorno ho fatto 40 anni” è una storia sintomatica, dedicata di fatto a tutti i giornalisti precari, quelli da “quattro centesimi a riga” che in sostanza equivalgono alla miseria di 4 euro con per un pezzo di cento righe, che è un pezzo vero che costa fatica. Ragazzi messi nel sottoscala dei giornali, senza nessuna garanzia. E dunque grande merito a Lucio, con le spalle professionalmente coperte, che si dedica a denunciare la vita (e in certi casi, appunto, la morte) di cronisti mossi solo da una grande passione. Un capitolo che non poteva mancare nel dazebao di Federica Angeli, giornalista con la schiena dritta, alla continua scoperta degli eroi di questo nostro tanto bistrattato mestiere. Dove molta gente pensa che sia un lavoro da privilegiato, chissà che vita da nababbo, e invece è soprattutto sudore e spessissimo rischi (figuriamoci poi in una terra di frontiera come la Calabria). Ma con la soddisfazione morale di aver portato, dopo una lunga battaglia, a far confiscare una proprietà mafiosa dove ora si combatte l’illegalità. Anche ieri sera la sala occupata dall’associazione “Noi” era affollata, segno che le campagne per il vivere civile cominciano a ottenere risultati, a conquistare sempre più proseliti.
La storia di Alessandro è tragica e semplice. Dopo aver salvato il giornale in una Cosenza oppressa dai criminali in colletto bianco invece di essere ringraziato è costretto dall’editore a licenziarsi e a farsi assumere a metà stipendio per salvaguardare la sua famiglia, una figlia piccola, una vera e propria estorsione. E dopo aver regalato l’ennesimo scoop alla sua testata, appena compiuto quarant’anni, si toglie la vita con la pistola con cui giocava al poligono. Caso rarissimo, la giustizia ha condannato l’editore per violenza privata. Ed è sintomatico che all’appello, ci sarà fra breve, si è costituita parte civile la Federazione della Stampa, sempre pronta a offrire una scorta mediatica ai colleghi più sfortunati, vittime di soprusi.
Nella stessa serata è stata presentata una bellissima mostra di Alex Mezzenga, un fotoreporter che da diciotto anni racconta storie dai territori difficili e che ora ha lanciato un interessante progetto. Si chiama #acasaloro e in un momento di crisi dell’editoria è una raccolta fondi per continuare a raccontare con le immagini le più lontane periferie del mondo. Insomma un progetto fotografico finanziato dagli stessi lettori. Si va da un’offerta di 10 euro fino a 500. Le informazioni sul sito www.alexmezzenga.com La prima tappa sarà in Somalia per una grande storia di speranza. Quella della dottoressa Asha Omar Ahmed, fuggita nel 1991 dalla guerra civile e poi laureatasi medico chirurgo a Roma tornata ora come ginecologa e ostetrica nel suo Paese dove già la chiamano “l’angelo di Mogadiscio” perché lotta contro la mortalità materna infantile e la pratica dell’infibulazione. Pino Scaccia