di Francesco Viviano
ll ragazzo sta per ammazzare un uomo. È in un vicolo di Palermo e deve vendicare suo padre. Quel ragazzo, poco più che adolescente, ha imparato a sopravvivere nel cuore nero della Sicilia e ora è a un bivio.
E’ la mia storia.
Nel mio quartiere c’erano personaggi legati a diverse famiglie mafiose: Madonia, Riccobono, Scaglione, Troia, Liga, Nicoletti, Di Trapani, Davì, Pedone, Gambino, Bonanno, Micalizzi e Mutolo, la crema di Cosa nostra.
Sono nato lì e vivevo al loro fianco.
Ma non ho fatto la fine di molti miei amici. Non ni sono sono arreso. Nemmeno alla vendetta.
Ho fatto il cameriere, il marmista, il pellicciaio, ho fatto il muratore e il commesso. Poi la “svolta”, fattorino prima e telescriventista per l’Ansa , alla fine giornalista. Prima all’agenzia giornalistica, poi a “la Repubblica”.
Il “mestiere” l’ho tirato fuori da ciò che avevo imparato tra i vicoli di Palermo, come muovermi, come trovare le notzie sa come muoversi e dove trovare le notizie, con chi parlare.
Gli anni folli delle guerre di mafia, il maxiprocesso nell’aula bunker dell’Ucciardone, gli omicidi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, le grandi confessioni dei pentiti, l’arresto di Giovanni Brusca, la caccia al papello di Totò Riina, le prime rivelazioni sulla trattativa tra mafia e Stato.
E’ anche la storia della mia amicizia con Peppe D’Avanzo, Mario Francese e Attilio Bolzoni, di chi ha fatto giornalismo cercando insieme gli scoop o strappandoseli di mano. È un ritratto della Sicilia e delle sue contraddizioni attraverso i miei occhi.
Comincio dall’inizio.
La casa di mio nonno era composta da una sola stanza con il pavimento in cemento; una tenda separava la cucina da un gabinetto rudimentale. Il tappo sul water scavato nella roccia non riusciva a bloccare gli odori della fogna a cielo aperto che scorreva all’esterno. In quella casa-stanza in vicolo Arena 12 vivevamo in sette: mio nonno Francesco Viviano detto “don Ciccio”, mastro muratore, mia nonna Giovanna Spano, mia madre Enza Bruno, io, due sorelle e un fratello di mio padre. Altri tre zii dormivano dai parenti che abitavano nello stesso vicolo. Due di loro facevano i cordai vicino a casa, sotto
le mura di cinta di piazza Montalto. Io mi divertivo a guardare la ruota che attorcigliava i filamenti mentre i miei zii, con una saccoccia sulla pancia come quella dei canguri, sfilavano la canapa camminando all’indietro.
All’angolo del vicolo c’era via Albergheria, che finiva dritta dritta, fra case diroccate e distrutte dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, nella piazza principale del mercato di Ballaro, nel cuore della vecchia Palermo. Il nostro era un quartiere popolarissimo, abitato prevalentemente da poveracci, borsaioli, scippatori, rapinatori, ricettatori, ma anche da persone perbene che riuscivano a sbarcare il lunario in maniera onesta.
Ogni volta che qualcuno usciva di galera, e accadeva spesso, si organizzava u triunfo, una festa di vicinato. Si facevano gli schiticchi (pasti in compagnia) e una piccola banda suonava il violino, il contrabbasso e la fisarmonica.
Si restava in strada fino a tardi per festeggiare l’ex detenuto, che il piu delle volte finiva per tornare in prigione di li a breve.
E poi, quel destino segnato.
Un ragazzo di 17 anni che deve portare a termine un compito ineludibile: uccidere il killer che gli ha portato via il padre.
Ero rimasto orfano da bambino e ora è arrivato il momento della vendetta. Ma c’è un imprevisto: quell’uomo malvagio “camminava, tenendo in braccio un bambino di un anno… che mi guardava con curiosità oltre la sua spalla, fissando… la pistola”.
Mi è bastato un momento per far cambiare direzione a tutta la mia vita.