Cosa possiamo fare per contribuire alla causa ecologista? Spegnere tutte le luci inutili? Tenere il riscaldamento rigorosamente sotto i 21°? Fare la spesa preferendo prodotti locali e privi di imballaggi eccessivi? Halla, che nel suo bel salotto tiene appesi alle pareti i ritratti di Ghandi e Mandela, pensa di darsi piuttosto al sabotaggio dell’industria dell’alluminio che una multinazionale cinese sta portando in Islanda, con forti ripercussioni per l’ambiente.
Halla è la protagonista del film di Benedikt Erlingsson “Woman at War”, (“La donna elettrica” per il pubblico italiano) che fa impallidire ogni Lara Croft, con buona pace di Angelina Jolie e delle sue epigoni. Bellissima di una bellezza autentica, senza un filo di trucco. Statuaria e resistentissima allo sforzo fisico, senza traccia di liposuzione e doping. Appassionata, senza l’ombra di una scena di sesso arroventato.
Halla insegna a un coro il bel canto polifonico islandese, e poi, nel tempo libero, si arma di arco, freccia e idealismo, e va a combattere, sola, novella vichinga, la sua lotta contro un progresso irrispettoso della natura: attacca i piloni dell’elettricità nella brughiera islandese, provocando blackout che danneggiano la produttività degli altoforni e causando la mobilitazione di droni, elicotteri e agenti di polizia che setacciano le linee della corrente elettrica nel paese. Per tutta risposta, a lei basta mettere il telefonino in frigo per evitare intercettazioni, nascondersi nella carcassa di un montone, come Leonardo Di Caprio di The Revenant, ma senza l’aura di eroismo sovrumano, per far perdere le sue tracce. Al suo posto, le disorientate forze dell’ordine catturano più volte sempre lo stesso giovane sudamericano che si trova a fare cicloturismo nei pressi delle operazioni di Halla, per poi rilasciarlo per essere estraneo ai fatti.
Questo accade già dalle primissime scene, contribuendo a creare quella trama parallela di surrealismo ironico che percorre tutto il film, a un tempo molto concreto e insieme fiabesco: Erlingsson affianca scene di vita quotidiana nella piscina municipale di Rejkjavik, con spogliatoi pieni di corpi nudi schiettamente realistici, all’atmosfera paradossale quasi alla Kusturica creata dalla presenza in scena dei musicisti che producono dal vivo la colonna sonora del film, affidata a un trio piano/fisarmonica, tuba e percussioni. A questo spaesante terzetto di improvvisatori folk si unisce un trio di voci femminili ucraine, che ricordano la funzione del coro antico: sembrano quasi parteggiare per la protagonista con le loro canzoni tradizionali incomprensibili ma a modo loro armoniose, anch’esse antisistema, che cominciano ad accompagnare il paesaggio sonoro quando Halla scopre che, dopo 4 anni dall’iniziale richiesta, le è stata accordata l’adozione di una bambina di 4 anni, rimasta orfana per la guerra nella zona di Donetsk.
L’effetto straniante di questa cornice di “realismo utopico” si completa con il rapporto della donna elettrica con la natura selvaggia dell’Islanda, dove Halla finisce per mimetizzarsi mischiandosi alle pecore o infilandosi nelle pieghe del terreno, tra muschi e ghiacciai, dove quella natura da proteggere è sì a sua volta protettiva ma anche dura e indifferente all’eroina che lotta strenuamente in sua difesa. Per fortuna c’è un presunto cugino di secondo grado a darle man forte. Insomma suona concretissimo ma un po’ troppo volontaristico lo sforzo di provare a preservare un futuro migliore, noi che siamo l’ultima generazione a poterlo fare, come scrive Halla nel volantino di rivendicazione che letteralmente lancia dai tetti della città. Missione che però nel finale sembra essere sostituita dalla necessità umana avvertita da una donna, matura e idealista, di riparare il trauma di una bambina sola al mondo, andandosela a prendere in un’Ucraina dove piove tantissimo, irrimediabilmente.
La convincentissima Hallora Geirharðsdóttir interpreta l’eroina volitiva e razionalmente incrollabile, e insieme anche la sorella gemella, maestra di yoga, pronta a partire per un ashram indiano dove dedicarsi solo alla meditazione e alla conoscenza profonda di sé. Modi diversi d’interpretare lo stare al mondo e la possibilità di innescare i cambiamenti, dall’esterno o dall’interno, punti di vista che possono scontrarsi e che dimostrano la complessità del reale, senza risolverlo in letture univoche. Quello che però esce vittorioso è la possibilità di credere ancora davvero in una qualche salvezza, di far risuonare insieme voci diverse, come in un coro; e la convinzione che, in fondo, siamo tutti un po’ cugini presunti e ci possiamo aiutare a vivere l’un l’altro, almeno un po’.