di Sabrina Pisu
Enrico Mattei, insieme al giornalista americano William McHale e al pilota Irenio Bertuzzi. Quella notte nella campagna pavese a precipitare, insieme a lui, è il sogno di un’Italia libera, energeticamente e quindi politicamente, e protagonista nel mondo.
Il suo omicidio è un fatto accertato in via giudiziaria che però qualcuno, ieri come oggi, vuole ancora nascondere, sulla base di una rete di complicità, evidentemente ancora attuale, che serve a salvaguardare quel buio sulle pagine di storia più cruciali del paese dietro al quale far scomparire il diritto alla verità e, quindi, a una vita democratica.
Il libro Il Caso Mattei, che ho scritto con il giudice Vincenzo Calia, che ha stabilito dopo oltre trent’anni che il presidente dell’Eni era stato vittima di un attentato e non di una “tragica fatalità”, racconta questo omicidio, rivelandone per la prima volta le prove e svelando gli scenari politici ed economici in cui maturò, con documenti inediti. L’obiettivo è divulgare e difendere questo pezzo di verità, o meglio questa “scheggia di verità” come la definirebbe Sciascia, perché, per dirla con le parole che nel 1995 usò Amintore Fanfani – presidente del Consiglio quando morì il fondatore dell’Eni – “l’abbattimento dell’aereo di Mattei è stato, forse, il primo gesto terroristico nel nostro paese, il primo atto della piaga che ci perseguita”.
A stabilire che il presidente dell’Eni era stato vittima di un attentato, è stata anche, in seguito, la Corte d’assise di Palermo nel procedimento sul sequestro del giornalista de L’Ora Mauro De Mauro, avvenuto il 16 settembre del 1970 mentre stava indagando sulle ultime ore trascorse in Sicilia da Mattei, incaricato dal regista Francesco Rosi, che stava lavorando al film Il caso Mattei. La Corte d’assise di Palermo, con la sentenza del giugno 2011, confermata in appello, con cui ha assolto Totò Riina, l’unico imputato ancora in vita, per non aver commesso il fatto, ha giudicato “acclarata, la natura dolosa delle cause che determinarono la caduta dell’aereo”. Un filo rosso lega questi due casi, rimasti senza una piena verità e nel caso di De Mauro senza neanche un corpo che i familiari possano piangere. De Mauro firmò la sua condanna a morte quando indagò sulla morte di Mattei, i giudici di Palermo non hanno dubbi. È stato un “delitto politico”, voluto ed eseguito da uomini di Cosa Nostra.
Che ruolo ha avuto la mafia, se lo ha avuto, nella fine di Mattei? Le indagini – per omicidio plurimo aggravato nei confronti di ignoti, reato imprescrittibile – furono riaperte nel 1994 dalla Procura di Pavia in seguito alle dichiarazioni del pentito Gaetano Iannì che dichiarò che il presidente dell’Eni era stato ucciso “con una bomba piazzata sul suo aereo, per un accordo tra Cosa Nostra e gli americani”. Il pm Calia, allora sostituto procuratore a Pavia, ripartiva da quello che sembrava essere un punto fermo, messo dalle due inchieste precedenti, quella condotta dalla commissione ministeriale nominata dall’allora ministro della difesa Giulio Andreotti – che si concluse velocemente nel marzo del 1963, escludendo l’ipotesi del sabotaggio – e la seconda, per disastro aviatorio e omicidio plurimo aggravato, che finì tre anni più tardi “perché i fatti non sussistono”. All’unisono avevano concluso che l’aereo di Mattei era caduto per cause accidentali, che era stato un “tragico incidente”.
Nel corso della nuova inchiesta il pm scoprì che, di fatto, queste inchieste erano profondamente lacunose, povere di testimoni e con quello oculare, il contadino Mario Ronchi, che aveva stranamente ritrattato la sua testimonianza nel giro di una notte. La sera stessa dello schianto dell’aereo, Ronchi aveva dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera e ai giornalisti della Rai di aver “sentito un boato e una botta, il cielo rosso che bruciava come un grande falò e le fiammelle che scendevano tutte attorno”. Il contadino smentì la sua testimonianza chiave, simile a quella della contadina Margherita Maroni. Due voci che si è, poi, cercato di silenziare per sempre privando l’audio nel filmato originale della Rai. Calia riuscì, tuttavia, a recuperare le loro dichiarazioni tramite un’esperta in lettura labiale.
Quello che emerge è una fitta trama composta da testimoni omessi, “comprati” o silenziati, soppressioni di prove, assenza di documenti e tante, troppe, bugie, contraddizioni, depistaggi e pressioni ricevute da tutti quelli che nel corso degli anni hanno indagato, in maniera diretta o indiretta, sulla morte del fondatore dell’Eni e che per questo hanno pagato con il sangue. “Chi tocca Mattei muore”, si diceva.
E lunga è, infatti, la lista di chi ci ha rimesso la vita: oltre a Mauro De Mauro, anche il commissario Boris Giuliano, il procuratore Pietro Scaglione, il generale Dalla Chiesa, il colonnello Russo e il giudice Terranova. Calia riscontrò da subito la fretta con la quale si erano volute chiudere le precedenti indagini e si erano distrutte tutte le prove esistenti, a partire dai resti dell’aereo che il 4 settembre del 1963, quando non era ancora stato chiuso il procedimento penale, furono lavati e disinfettati per essere fusi “insieme ad altro materiale di risulta, allo scopo di confondere i resti dell’aereo nell’insieme del materiale da smaltire”.
Vicenzo Calia decise di andare a fondo e fece anche riesumare i resti di Mattei e del pilota Bertuzzi, schegge metalliche dell’aereo erano ancora infisse in quello che restava dei loro corpi. Il pm riuscì anche a trovare dei pezzi dell’aereo, l’indicatore triplo, sfuggito alla distruzione e, utilizzando due sonde magnetometriche e un’escavatrice, qualche frammento interrato, nell’area in cui era caduto il bimotore, oltre ad alcuni oggetti personali di Mattei, come l’orologio e l’anello d’oro.
“Gli aerei non precipitano senza un motivo”, scriveva a ragione Giorgio Bocca parlando della morte del presidente dell’Eni. Le numerose perizie – tra cui quelle effettuate dall’ingegner Donato Firrao, già componente del collegio peritale nel “caso Ustica”, e dall’esperto esplosivista Giovanni Brandimarte – hanno concluso, con certezza, sulla presenza a bordo di una carica esplodente, equivalente a circa cento grammi di Compound B, posizionata a dieci-quindici centimetri dalla mano sinistra di Enrico Mattei e innescata dal comando che abbassava il carrello e apriva i portelloni di chiusura dei suoi alloggiamenti.
L’inchiesta – 5000 pagine, 614 testimoni e 12 consulenze tecniche – è stata archiviata nel 2005 e non è riuscita a individuare, a causa dei troppi anni trascorsi, i mandanti. I sospetti, pur intensi e plausibili, di cui si parla diffusamente nel libro, non furono adeguati a giustificare l’iscrizione di singoli nomi sul registro degli indagati o a protrarre le indagini. La cosa certa è che la programmazione e l’attuazione dell’attentato comportarono il coinvolgimento di uomini inseriti nello stesso ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato italiano, con responsabilità di primo piano. In molti ritengono che Cosa Nostra sia stata l’esecutrice dell’omicidio. La tesi ha ricevuto conferma nelle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta che il 29 aprile del 1994, davanti all’autorità giudiziaria di Palermo, definì l’omicidio di Mattei “il primo delitto eccellente di carattere politico ordinato dalla commissione di Cosa nostra” nell’interesse delle maggiori compagnie petrolifere americane. Il suo racconto circa le modalità esecutive dell’attentato è, tuttavia, generico e le circostanze non confermabili. L’unica, fondamentale, certezza acquisita è che quello di Enrico Mattei è stato un “omicidio deliberato”, un delitto italiano maturato sullo sfondo di una spietata guerra di potere, politico-economico, che si è continuata a giocare anche sul suo cadavere e che ha visto una parte della stampa, manovrata dai potenti, costituire un alleato di ferro nel sabotaggio della verità.
Una verità che ancora oggi dà fastidio.