di Piero Melati
“Giorni di mafia” era un progetto editoriale semplice e difficile allo stesso tempo. Nel 2016 l’editore Laterza mi propose di scrivere un libro di un centinaio di pagine, dove in cento date si potesse condensare una breve storia della mafia.
Quelle cento date, concordammo subito, non potevano però essere altrettante lapidi di un cimitero. Ovvero non potevano limitarsi a elencare i cento atti cruenti più importanti e i nomi dei loro caduti. No, dovevano anche evocare il clima politico consumatosi attorno a certi avvenimenti di sangue, lo spessore dei personaggi, le svolte radicali della storia siciliana, i casi rimasti aperti, i misteri mai chiariti, l’attualità.
Mi sono messo al lavoro per costruire un calendario che, per ogni data, calamitasse comunque gli eventi di mafia più importanti e i delitti eccellenti, ma fosse caratterizzato da episodi, personaggi o casi storici trasversali o inaspettati. Compresi politica, cinema, cultura. Oppure, altro criterio, che potesse fornire un punto di vista differente rispetto alle letture ricorrenti.
Il clima era dei meno favorevoli. Si erano appena scoperti gli scandali della cosiddetta “mafia dell’antimafia”. La stessa fabbrica della retorica stava cambiando pelle: alleggerire l’argomento mafia era la parola chiave. Adesso i procuratori più in vista prediligevano, nei pubblici dibattiti, avere al fianco dei comici piuttosto che dei giornalisti. In più i due schieramenti storici, giustizialisti e garantisti, si erano definitivamente cristallizzati in fazioni opposte impegnate in una guerra di religione all’ultimo sangue.
Accanto a tutto questo montava un’onda che diceva: basta, la Sicilia è cambiata, d’ora in poi pensiamo ad altro. Rottamiamo Sciascia, il Gattopardo, Pirandello, coppole e lupare, stragi e misteri. Al massimo, facciamoli entrare nell’industria neutrale e d’intrattenimento delle fiction tv.
E invece, mi chiedevo, si può scrivere la stessa storia in un altro modo? Si possono guardare anche da punti di vista differenti i medesimi avvenimenti e personaggi? Si possono trovare ancora particolari nuovi, senza scadere nel revisionismo e nel negazionismo di fatti ormai acclarati? A volte, mi sono detto andando avanti nel lavoro, sembrava solo questione di trovare una interpretazione più corretta e non pregiudiziale dei fatti. Faccio un esempio su tutti, per esprimere lo spirito del libro. Leonardo Sciascia, il primo che ha parlato all’Italia della mafia, è stato poi tormentato per aver scritto nell’87 il celebre articolo sui “professionisti dell’antimafia”. Oggi la versione ufficiale, accettata piò o meno dai più, dice: fu profetico ma sbagliò bersaglio, poiché in quell’articolo attaccò Paolo Borsellino. Che Sciascia fu profetico, visti gli avvenimenti successivi, non v’è dubbio. Che semplicemente sbagliò bersaglio appare riduttivo, alla luce dei fatti. Significa volersela cavare con poco.
Infatti, lo stesso Borsellino, che era cresciuto sui libri di Sciascia e lo considerava un maestro, nel suo ultimo discorso prima di morire, disse pubblicamente e inequivocabilmente ( e chissà quanto gli costò) che Falcone iniziò a morire il giorno dell’uscita di quell’articolo di Sciascia. Subito dopo cadde anche lui nella strage di via D’Amelio.
Gli uomini di buoni sentimenti avranno anche le loro ragioni per voler sottovalutare la portata del caso. Peccato che, per via della morte concreta di due uomini eccezionali quali Falcone e Borsellino, delle parole di quest’ultimo su Sciascia in relazione alla morte di Falcone e prima della sua stessa morte, e infine per la indiscutibile autorevolezza di Sciascia, che aveva diritto di dire quel che ha detto, quel caso resti una ferita aperta nella storia dei siciliani e riveli inoppugnabilmente una profonda incomprensione (spinta fino al fatalismo) di due siciliani fuori dal comune (Sciascia e Borsellino, appunto) entrambe disgustati dalla mafia ma che mai si compresero appieno, forse perché figli di epoche diverse.
Questa ferita, tuttora aperta, è stata devastante. Nessun tappetino postumo può coprirla. Tra i tanti danni, quello strappo ha prodotto la definitiva sclerotizzazione dei due schieramenti contrapposti (giustizialisti e garantisti), nel frattempo evolutisi in chiave talebana, integralisti come sono diventati rispetto ad ogni confronto che non sia l’insulto reciproco e la cattiva fede.
Vi risparmio altri esempi. Chi vuole, eventualmente, li troverà nel libro. Sciascia scrisse “Il giorno della civetta” all’inizio degli anni sessanta. Quel testo non è mai stato aggiornato. Intendiamoci: abbiamo centinaia di contributi giornalistici, alcuni dei quali indispensabili e di livello eccellente. Ma non mai un’opera capace di veicolare con la empatica semplicità di quella storia e con una popolarità alla Camilleri quanto la Sicilia sia stata il guardino degli orrori della storia italiana. Un laboratorio di Frankenstein capace di far confluire persino i due fiumi italiani più velenosi (la mafia, appunto, e il terrorismo, e l’uso strumentale di quest’ultimo) nella costruzione di un “regime” che ha poi nel tempo ispirato il narcoterrorismo di Pablo Escobar in Colombia, la necropolitica dei cartelli messicani, il mondialismo criminale della ‘ndrangheta, grazie all’invenzione del traffico internazionale di droga, e con tutto questo ha permesso di conseguenza l’uso di una massa enorme ma invisibile di narcodollari da immettere strutturalmente da allora e per sempre nella finanza mondiale. Con quali conseguenze? Lo ignoriamo.
Cosa Nostra siciliana ha inventato un modello storico di enorme portata, che poi l’ultimo dei suo grandi padrini, Bernardo Provenzano, ha sottratto (dopo gli anni delle bombe di Totò Riina) dalla vista di ogni radar, mandandolo sotto traccia. Può darsi che quel modello, una volta esportato, si sia liquefatto, almeno in Sicilia. Oppure abbia vissuto altre metamorfosi. Oggi non lo sappiamo. Lo sapremo mai?