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“Da dove vengono gli immigrati”. I Siciliani con Giuseppe Fava erano dalla parte dei migranti. Lo sono anche ora (a 35 anni dal suo omicidio)

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Il 5 gennaio di 35 anni fa la mafia uccideva Giuseppe Fava scrittore, giornalista, sceneggiatore italiano. I Siciliani giovani, la testata edita a Catania e fondata proprio da Pippo Fava e che si occupava prevalentemente di tematiche di contrasto a cosa nostra ha promosso per il 35° anniversario dall’uccisione del loro storico direttore numerose iniziative. E lo ha ricordato anche ripubblicando un suo articolo del 1967 sul tema migranti che è ancora di grande attualità. Articolo21 si associa all’ottima iniziativa dei Siciliani Giovani ripubblicando l’articolo.di Giuseppe Fava (da “Processo alla Sicilia”, 1967)A Palma di Montechiaro l’indice di mortalità infantile è il più alto di tutta l’Europa. Il tifo, il tracoma, la scabbia gli eczemi ed infine la tubercolosi. dietro lo splendore degli occhi di tanti bambini c’è la fame, l’avidità, ma c’è soprattutto la febbre. Su cento bambini dieci non riescono a sopravvivere fino all’adolescenza. Dei novanta che restano, almeno trenta non vanno mai a scuola e restano analfabeti.Degli altri cinquanta, la metà abbandonano le aule a sette o otto anni e se ne vanno nelle campagne a caricare la loro parte di pietre, di fascine, di sacchi, raccolgono sterpi per il fuoco, governano gli animali, raccolgono le immondizie per la strada, chiedono la elemosina. Le cause della povertà.

Muoiono molti bambini, ma l’indice della natalità è frenetico, anch’esso il più alto d’Europa. Questa piccola, tragica popolazione si propaga sulla faccia della terra con la stessa rapidità con cui a lei si propagano le mosche, gli escrementi, i cani, la miseria. In questa landa che potrebbe dare stentatamente da vivere ad appena cinque o seimila persone, se ne addensano almeno ventimila: la base della tragedia è questa. L’agricoltura è miserabile; alle spalle del paese ci sono le montagne aride, senza un albero, un mandorlo un ulivo, un filo d’acqua.

Solo mille hanno lavoro

Facciamo conto che, su ventimila esseri umani, gli individui validi al lavoro siano ottomila. Di costoro un centinaio sono artigiani, un altro centinaio commercianti, duecento sono i borghesi, cioè gli impiegati, i carabinieri, i maestri elementari, l’esattore delle tasse, i medici condotti, e cinquecento gli agricoltori, cioè coloro che hanno la proprietà della terra. Gli altri settemila individui sono braccianti e manovali. Soltanto mille di costoro hanno lavoro; altri duemila vivono con gli assegni di disoccupazione e sono i più vecchi, gli ammalati, i rassegnati, i vinti.

I cinquemila che restano sono emigrati, lavorano nelle miniere di ferro in Germania, nelle miniere di carbone del Belgio, nelle campagne della Francia. Se non fossero emigrati, un giorno o l’altro la gente qui avrebbe cominciato a scannarsi, poiché l’essere umano sopporta le mosche che si posano sugli occhi, gli escrementi dentro il bugliolo, persino le malattie e la morte, ma la fame no!

Vite di questi emigranti

Palma di Montechiaro praticamente vive con le rimesse di questi cinquemila uomini dispersi sulla faccia della terra, i quali inviano ogni mese una media di cinquemila lire a testa, cioè complessivamente trecento milioni. Tutta l’economia vive su quei trecento milioni che servono a pagare i bottegai, gli artigiani, le tasse, i cibi, i vestiti, l’acqua. Ogni tanto qualcuno degli emigranti, i più anziani o stanchi se ne torna con un piccolo gruzzolo, acquista una piccola casa, lugubre e fetida come tutte le altre, senza servizi igienici poiché fognature non ce ne sono, senza acqua perché la rete idrica non esiste. Se gli rimane un po’ di denaro, con una tragica caparbietà torna ad investirlo nell’acquisto di un pezzo di terra. Il cerchio – che la sua volontà di sopravvivere aveva spezzato per un anno o per cinque – si chiude di nuovo su questo essere umano. La salvezza dell’uomo qui è anche la sua condanna; il destino di nascere a Palma di Montechiaro, patire febbri, stenti, malattia, ignoranza, umiliazione, si può spezzare soltanto cercando altrove per il modo la maniera di sopravvivere.

(Giuseppe Fava da “Processo alla Sicilia”, 1967)


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