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Cuba sessant’anni dopo 

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L’epica della Rivoluzione cubana, benché siano trascorsi sei decenni dal suo culmine, è ancora al centro di innumerevoli narrazioni e non basteranno le calunnie, le menzogne e le denigrazioni gratuite di troppi narratori prezzolati a farla svanire.
Fidel Castro ed Ernesto Guevara, al netto dei loro limiti, dei loro errori e, nel caso di Fidel, della decadenza che ha accompagnato il suo potere durato troppo a lungo e, per forza di cose, difensivo, erano e rimangono due miti planetari.
Allo stesso modo, la poesia senza tempo del Granma e della Sierra, la lotta per la dignità e la libertà di un popolo, contro i soprusi di Fulgencio Batista e, successivamente, conto l’imperialismo americano che in ogni modo ha cercato di minarne la tenuta, queste caratteristiche, nel loro insieme, rendono l’epopea cubana una sorta di favola realizzata, una meraviglia cui oggi sono costretti a dire grazie persino i suoi più acerrimi detrattori.
Non è un caso, infatti, se grazie alla saggezza di Obama si era giunti alla conclusione dell’embargo e con l’abilità diplomatica di papa Francesco si sia andati ben al di là dell’apertura, pur significativa, di Wojtyla nel ’98. Non è un caso, ahinoi, neanche la grettezza e l’ottusità di Trump; fatto sta che se adesso persino in America si comincia a parlare di socialismo e se persino i più sfrenati sostenitori dell’American way of life sono costretti ad elogiare il modello sanitario dell’isola, tutto ciò significa che la lungimiranza dei promotori di quella rivolta di popolo ha segnato davvero una rotta della storia.

Cos’è rimasto, dunque, del mito di Cuba, del suo essere, al tempo stesso, un simbolo e un monito, un punto di riferimento e un esempio di sacrificio e di passione civile senza eguali? A parer mio, è rimasta una certa idea di comunità e di amore per il prossimo, di condivisione e di difesa di una visione diversa dei rapporti umani, dello stare insieme e del concepire l’economia e lo sviluppo della società nel suo complesso. È rimasta, inoltre, la follia e la grandezza di chi ebbe determinate intuizioni e non ebbe paura di rischiare la vita per trasformare un sogno in realtà.
Sessant’anni dopo, Cuba e la sua bellezza sono ancora lì a rammentarci che non tutto del comunismo mondiale è stato commendevole, anzi, ma che la sua demonizzazione, al di là dei demeriti e dell’oggettiva ferocia cui esso ha dato luogo nei paesi in cui maggiormente si è sviluppato e ha potuto governare, non è stata certo meno barbara, iniqua e controproducente.

A sessant’anni dall’ingresso di Castro e Guevara all’Avana rimane in noi l’interrogativo su quando sia indispensabile abbattere la tirannia e su quali conseguenze questo delicatissimo argomento possa comportare. E poi ci resta la gratitudine, nei confronti di due uomini che hanno messo a repentaglio la propria vita per restituire un minimo di benessere a persone oppresse e private persino del rispetto per se stesse.
A Castro e Guevara, a quei giorni ormai lontani, al loro essere diventati icone e al nostro disperato bisogno di bandiere da sventolare e protagonisti cui aggrapparci va un pensiero intenso e significativo. Per ciò che è stato e per ciò che, grazie a loro, potrà continuare ad essere.

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