Un omicidio è un atto di negata dignità. Per la vittima, a cui non si riconosce un valore superiore all’odio. Per l’assassino, che svalutando il simile fino a sopprimerlo, perde il rispetto della comune umanità. Questo stato di regressione del carnefice dura finché non matura il pentimento, un processo complesso di revisione basato sulla rivalutazione della sua vittima, fino a generare il beneficio della sofferenza per il dolore inflitto e la riabilitazione della propria dignità sospesa.
Solo alla fine di questo percorso, un assassino può chiedere perdono. E avviarsi alla rieducazione che prevede la Costituzione. Quella che vediamo realizzata nelle carceri, con il cambiamento di persone abbrutite dalla violenza nella “prima vita” e poi diventate completamente diverse con l’aiuto dell’istruzione, dell’arte e del lavoro.
Battisti non si è mai pentito. Deve scontare la sua pena. Ora avrà il silenzio per rincontrare le sue vittime in isolamento. Ma finiamola di trattarlo come un trofeo, un “regalino” tra regnanti, perché infierire su un catturato è degradante e anticostituzionale (“E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Art. 13.4 Costituzione). Ripudiare la vendetta non è buonismo, è civiltà.
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